La trascrizione degli atti di nascita esteri di figli e figlie delle coppie dello stesso sesso.

Nonostante l’applicazione delle tecniche di p.m.a. alle coppie femminili sia vietata in Italia, come ampiamente descritto dalla nota del Presidente Avv. Vincenzo Miri, la giurisprudenza di merito e quella di legittimità si sono confrontate più volte con la domanda di rettificazione degli atti di nascita formati in Italia con indicazione della sola partoriente, o con quella di riconoscimento degli atti di nascita esteri che contemplavano entrambe le madri, grazie al cui progetto genitoriale i bambini hanno visto la luce, attraverso tecniche medicali praticate all’estero.

Tali azioni sono dirette ad ottenere il riconoscimento dello status filiationis attraverso la formazione di un titolo dello stato, cui consegue la costituzione di un rapporto giuridico con due persone determinate – le due madri, rispetto alle quali i bambini possono essere legati geneticamente ad una, e biologicamente all’altra, che ha condotto la gravidanza dell’embrione ottenuto dalla fecondazione dell’ovocita della partner col gamete di un donatore – alle quali domandare l’adempimento dei doveri fondamentali di cui all’art. 30 Cost. e 24 Carta di Nizza.

Eppure, secondo la giurisprudenza della Corte Cassazione, di recente avallata dalla Corte Costituzionale in una pronuncia resa, tuttavia, con riguardo al solo art. 5 delle l. 40 del 2004, a fare la differenza rispetto alla pienezza dello status sarebbe il fatto che la nascita sia avvenuta fuori dall’Italia o nel territorio nazionale: nel primo caso è consolidato l’orientamento che ammette la piena efficacia, attraverso la trascrizione nei registri di stato civile, dell’atto di nascita estero costitutivo della doppia maternità, e di conseguenza riconosce anche in Italia la discendenza giuridica e la responsabilità genitoriale di entrambe le madri. Nel secondo, al contrario, l’ufficiale di stato civile italiano potrebbe formare un atto di nascita solo raccogliendo la dichiarazione della partoriente, mentre all’altra donna resterebbe la via obbligata della domanda, innanzi al Tribunale per i minorenni, di adozione in casi particolari del nato.

La Cassazione si è pronunciata dapprima sul caso in cui due donne, condividendo il progetto genitoriale, avevano generato in Spagna un bambino, fornendo l’una il materiale genetico e l’altra conducendo la gestazione, e fin da quella occasione ha sottolineato sia la trasmissione dei geni dalla madre non biologica, sia il comune programma procreativo, per ordinare la trascrizione dell’atto di nascita spagnolo, in quanto non contrario all’ordine pubblico, ai sensi degli artt. 16 e 65 della l. n. 218 del 1995 e dell’art. 18 del d.P.R. n. 396 del 2000 (Cass., 30 settembre 2016, n. 19599).

L’ordine pubblico costituisce, infatti, impedimento alla produzione di effetti in Italia di provvedimenti o sentenze stranieri contrari ai valori irrinunciabili dell’ordinamento italiano, e fin da quella prima occasione la Corte ne ha ancorato la definizione ai principi che la Costituzione impone al legislatore ordinario – e solo a quelli con essa compatibili desunti dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (ai sensi degli artt. 10, 11, 117 Cost.) – precludendogli di introdurre con legge ordinaria disposizioni analoghe alle straniere di cui si discute l’applicazione. All’interprete si richiede «un giudizio (o un test) simile a quello di costituzionalità, ma preventivo e virtuale», a garanzia del rispetto della gerarchia delle fonti e, in definitiva, dell’assetto democratico della Repubblica, che si realizza ipotizzando una norma interna identica a quella, straniera, in forza della quale è stato formato l’atto, e valutandone la costituzionalità.

Fin dal più remoto precedente, dunque, la Cassazione afferma: 1) che è compatibile con la Costituzione l’accertamento della genitorialità, attraverso l’atto di responsabilità delle madri, nei confronti di due donne; 2) che la disposizione dell’art. 269, comma 3, c.c., sulla maternità della partoriente non è norma di ordine pubblico, ma solo «disposizione sulla prova», che facilita la dimostrazione della discendenza materna in caso di filiazione attraverso l’unione sessuale, ma non impedisce l’accertamento attraverso l’esame del D.N.A., ai sensi del comma 2 dello stesso art. 269 c.c., che potrebbe portare a risultati diversi in caso di procreazione medicalmente assistita, con donazione di ovocita; 3) che l’eccezione di ordine pubblico non può essere usata come «carta bianca che giustifichi qualsiasi misura, in quanto l’obbligo di tenere in considerazione l’interesse del minore incombe allo Stato indipendentemente dalla natura del legame genitoriale, genetico o di altro tipo».

Di conseguenza, in ossequio o canone di indifferenza delle scelte di procreazione adottate dai genitori rispetto allo status del figlio di cui all’art. 155 c.c., che promana direttamente dal principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), il solo fatto che il legislatore non preveda o vieti la tecnica procreativa disciplinata invece dall’ordinamento straniero, non costituisce eccezione opponibile alla produzione di effetti, in Italia, del provvedimento che costituisce applicazione della, diversa, disposizione straniera (così, da ultimo, Corte cost. 4 novembre 2020, n. 230, cit.).

Il principio è stato ribadito, un anno dopo, rispetto a una fattispecie nella quale mancava la discendenza genetica dalla madre c.d. intenzionale, che non aveva fornito l’ovocita per la generazione dell’embrione (Cass., 15 giugno 2017, n. 14878). La posizione di questa donna, che abbia condiviso la decisione di mettere al mondo il bambino attraverso le tecniche di ausilio medicale, è assimilabile alla condizione dell’uomo, marito o convivente, che abbia consentito all’inseminazione eterologa della partner, il quale, in ragione di tale consenso, non è legittimato a contestare la veridicità dello stato di figlio matrimoniale o non matrimoniale che spetta al nato, ai sensi degli artt. 8 e 9 della l. 40 del 2004. Si tratta infatti di una regola, dettata a tutela del figlio nella originaria vigenza del divieto di fecondazione con gameti esterni alla coppia, che, in ossequio all’insegnamento della Consulta (Corte Cost. 26 settembre 1998, n. 347, recepita da Cass., 16 marzo 1999, n. 2315), esprime il diritto del bambino a vedersi costituito e a conservare lo status di figlio di colui (o colei) che, consentendo alla p.m.a., si è assunto la responsabilità di essere genitore, a prescindere dall’inesistenza di un vincolo genetico.

Nel sistema della l. 40 del 2004, la procreazione medicale ribalta, dunque, il principio codicistico secondo cui consensus non facit filios, modellato sulla filiazione attraverso le energie naturali, e che consente, con l’art. 269 c.c., di dichiarare giudizialmente la paternità, in conseguenza della prova della compatibilità genetica col bambino, anche qualora l’uomo non avesse alcuna intenzione di generare un figlio.

Al contrario, nel momento stesso in cui viene generato medicalmente un embrione, l’uomo perde la facoltà di revocare il consenso espresso all’applicazione delle tecniche (art. 6, comma 3, l. 40/2004), perché è da questo momento che si può parlare di un concepito, i cui diritti sono tutelati dall’art. 1, compreso tra i «Principi generali». Precetto, questo, la cui applicazione non è in alcun modo subordinata alla sussistenza delle condizioni di accesso alle tecniche, di cui costituisce proiezione, per il tempo successivo alla formazione dell’atto di nascita come figlio della coppia, la preclusione disposta dall’art. 9 alle azioni di disconoscimento o impugnazione del riconoscimento non veritiero, proposte dal coniuge o dal convivente «il cui consenso è ricavabile da atti concludenti», e dunque anche ove ne manchi la documentazione per iscritto. Allo stesso modo, alla partoriente è precluso l’esercizio della facoltà di anonimato, che ne impedirebbe la genitorialità giuridica.

Da queste argomentazioni deriva la critica a due recenti orientamenti della Corte di Cassazione.

Il primo, oggetto della questione posta dal Tribunale di Padova per il giudizio della Corte Costituzionale, attiene all’affermazione secondo cui non sarebbe ammesso, in Italia, il riconoscimento alla nascita ad opera della madre intenzionale (e di conseguenza anche la dichiarazione giudiziale di maternità, esperibile nei soli casi in cui è ammesso il riconoscimento, ex art. 269, comma 1, c.c.). In questo senso si sono pronunciate la Corte di legittimità (Cass. civ., 3 aprile 2020, in. 7668; Cass. civ., 22 aprile 2020, n. 8029, cit., rese in fattispecie nelle quali la madre intenzionale non aveva alcun legame, né genetico né biologico col nato), e la Consulta (Corte Cost. 4 novembre 2020, n. 230, cit.), la quale non ha mancato di rilevare che la genitorialità è «legata anche (corsivo aggiunto) al “consenso” prestato, e alla “responsabilità” conseguentemente assunta, da entrambi i soggetti che hanno deciso di accedere ad una tale tecnica procreativa», e tuttavia ha esplicitamente condizionato l’applicazione delle norme poste a tutela del nato, al rispetto dei requisiti imposti per l’accesso alla p.m.a., escludendo dunque la genitorialità omosessuale.

Lo status filiationis potrebbe dunque essere costituito, nei confronti della madre intenzionale, solo attraverso una sentenza di adozione in casi particolari (con i limitati effetti descritti dalla nota del Presidente Vincenzo Miri), quando ciò sia possibile, sussista l’assenso della madre legale, ed in conseguenza dell’accertamento giudiziale della realizzazione dell’interesse del minore a veder riconosciuto rilievo giuridico all’affettività maturata.

Ciò significa permettere a «chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità» (Corte Cost. 26 settembre 1998, n. 347) di tornare sui propri passi, ottenendo la sostanziale revoca del consenso prestato, molto semplicemente omettendo di proporre domanda ex art. 44 ss. l. n. 184/1983.

L’interpretazione finisce, dunque, per contraddire la pur affermata tutela costituzionale del diritto alla genitorialità del nato, ossia a vedersi costituito il proprio status filiationis (Corte Cost., 28 novembre 2002, n. 494) verso la madre intenzionale, in quanto tale diritto soggettivo resta orfano di azione in giudizio, in violazione dell’art. 24 Cost., e per discriminare i nati nell’attribuzione dello stato di figlio a seconda delle circostanze della nascita, con conseguente violazione degli artt. 3 Cost., 21 C.d.f.U.E. e 14 CEDU.

Il secondo indirizzo interpretativo, oggetto di diversa questione sollevata dalla stessa Corte di Cassazione (Cass., sez. I, ord. 29 aprile 2020, n. 8325) per l’imminente giudizio della Corte Costituzionale, ravvisa nella nascita attraverso gestazione per altri l’unica eccezione all’operatività del canone generale di “filiazione per scelta”, che consente, altrimenti, la trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero, in caso di p.m.a. (Cass., S.U., 8 maggio 2019, n. 12193)

Ad avviso di chi scrive, la scelta compiuta dal legislatore, in ordine al divieto di porre in essere determinati comportamenti o pratiche, non può essere messa sullo stesso piano dell’esigenza di protezione di diritti fondamentali della persona, contemplati da fonti di rango costituzionale nazionali e/o sovranazionali. Occorre, quindi, stabilire quali siano le conseguenze dell’applicazione di norme inderogabili di ordine pubblico, derivanti da discrezionalità legislativa, nella sfera giuridica dei soggetti coinvolti: se cioè da detta applicazione possano derivare lesione e/o limitazione di diritti fondamentali, soprattutto con riferimento a soggetti terzi, com’è il nato rispetto all’accordo di gestazione per altri grazie al quale ha visto la luce. In questo caso, è evidente che un approccio ermeneutico che non tenga conto della gerarchia di valori porrebbe il principio di ordine pubblico in contrasto con i fondamenti del sistema.

Dall’applicazione del principio di ordine pubblico discendono dunque effetti differenziati a seconda della rilevanza degli interessi in gioco, come ha evidenziato la Corte di Cassazione nella citata sentenza n. 19599/2016. È su questo presupposto che può distinguersi, in accordo con l’ordinanza di rimessione, una nozione di ordine pubblico internazionale che comprende anche le norme inderogabili in cui al bene della vita da esse protetto viene attribuita una tutela rafforzata, anche di rilevanza penale, tutela che connota un interesse pubblico sotteso ed è espressione della tradizione giuridica domestica (ordine pubblico discrezionale). Tuttavia, l’applicazione delle regole inderogabili di diritto interno non può mai comportare la lesione di diritti fondamentali dell’individuo, manifestazione di valori supremi e vincolanti della cultura giuridica che ci appartiene, trasfusi nella Costituzione e nella C.d.f.U.E., che rappresentano un ordine pubblico gerarchicamente superiore (ordine pubblico costituzionale).

È dunque necessario scindere il piano dell’indagine concernente la pratica della gestazione, da quello riguardante le situazioni giuridiche soggettive del nato e, in particolare, il suo diritto ad acquisire uno status di figlio che rispetti nella misura più ampia possibile il suo interesse alla genitorialità, all’identità, all’affettività.

Deriva che: a) in relazione alla pratica della gestazione per altri, a prescindere dall’applicabilità della sanzione penale, si deve ritenere la piena operatività del divieto, con conseguente inazionabilità, per contrarietà all’ordine pubblico, di qualsiasi provvedimento straniero che riconosca eventuali diritti ad essa connessa, quali, ad esempio, la richiesta del compenso pattuito o l’esecuzione di obblighi previsti dal relativo contratto; b) viceversa, il riconoscimento verso il nato delle situazioni giuridiche soggettive connesse allo stato di figlio, trattandosi di diritto fondamentale, presupposto della responsabilità genitoriale, espressamente riconosciuto dalla Costituzione italiana (artt. 2, 30 e 31), dalla C.d.f.U.E. (art. 24), del reg. n. 2201/2003 [art. 23, lett. a)] e dalla CEDU (art. 8), va visto esclusivamente in ottica filiale.

Se si ritenesse diversamente, confondendo i due profili, si arriverebbe – ancora una volta – alla conseguenza di discriminare i nati nell’attribuzione dello stato di figlio a seconda delle circostanze della nascita e della modalità di gestazione, con conseguente violazione degli artt. 3 Cost., 21 C.d.f.U.E. e 14 CEDU. È quindi evidente che i diritti del nato riconducibili all’ordine pubblico costituzionale non possono essere condizionati dalla circostanza che la gestazione sia avvenuta con modalità contrarie all’ordine pubblico discrezionale.

 

Stefania Stefanelli

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