La Cassazione dice no alla sterilizzazione forzata per la rettificazione degli atti di stato civile delle persone transessuali

La Cassazione dice no alla sterilizzazione forzata per la rettificazione degli atti di stato civile delle persone transessuali (Copia pdf della sentenza  n. 15138/2015 LINK) Con una decisione storica la prima sezione della Corte di cassazione (sentenza n. 15138/2015) ha deciso che per ottenere la rettificazione degli atti anagrafici non è obbligatorio l’intervento di adeguamento degli organi riproduttivi.

Il ricorso è stato presentato dagli avvocati e le avvocate di Rete Lenford – Avvocatura per i diritti LGBTI (Avvocati Bilotta e Genova), insieme con l’avvvocata Gracis, da tempo a fianco delle persone transessuali che hanno subito danni nell’ambito di interventi di rettificazione chirurgica del sesso. L’impegno degli avvocati e delle avvocate di Rete Lenford, come pure di singoli avvocati e avvocate con cui l’Associazione collabora, mettendo a loro disposizione il bagaglio di conoscenze che in questi anni ha accumulato, testimonia la funzione sociale che l’avvocatura svolge per l’avanzamento dei diritti nel nostro Paese.
Nel caso deciso dalla Cassazione, l’assistita, una persona trans di 45 anni aveva già ottenuto nel 1999 una sentenza che l’autorizzava all’intervento chirurgico. Ciononostante aveva rinunciato alla demolizione/ricostruzione chirurgica dei propri caratteri primari, avendo raggiunto nel tempo un equilibrio psico-fisico e che da 25 anni vive ed è socialmente riconosciuta come donna. Sia il tribunale di Piacenza che la corte d’appello di Bologna, a cui la stessa si era rivolta per ottenere la rettificazione dello stato civile pure in assenza dell’intervento chirurgico, avevano respinto la richiesta aderendo a quella giurisprudenza di merito, sino ad oggi prevalente, che subordinava la modificazione degli atti anagrafici all’effettiva e concreta esecuzione del trattamento chirurgico sui caratteri sessuali primari (organi genitali).

La cassazione sostiene che “La percezione di una disforia di genere (secondo la denominazione attuale del D.S.M. V, il manuale statistico diagnostico delle malattie mentali) determina l’esigenza di un percorso soggettivo di riconoscimento di questo primario profilo dell’identità personale né breve né privo d’interventi modificativi delle caratteristiche somatiche ed ormonali originarie. Il profilo diacronico e dinamico ne costituisce una caratteristica ineludibile e la conclusione del processo di ricongiungimento tra ‘soma e psiche’ non può, attualmente, essere stabilito in via predeterminata e generale soltanto mediante il verificarsi della condizione dell’intervento chirurgico”.

E ancora: “il desiderio di realizzare la coincidenza tra soma e psiche è, anche in mancanza dell’intervento di demolizione chirurgica, il risultato di un’elaborazione sofferta e personale della propria identità di genere realizzata con il sostegno di trattamenti medici e psicologici corrispondenti ai diversi profili di personalità e di condizione individuale. Il momento conclusivo non può che essere profondamente influenzato dalle caratteristiche individuali. Non può in conclusione che essere il frutto di un processo di autodeterminazione verso l’obiettivo del mutamento di sesso, realizzato mediante i trattamenti medici e psicologici necessari, ancorché da sottoporsi a rigoroso controllo giudiziario. La complessità del percorso, in quanto sostenuto da una pluralità di presidi medici (terapie ormonali trattamenti estetici) e psicologici mette ulteriormente in luce l’appartenenza del diritto in questione al nucleo costitutivo dello sviluppo della personalità individuale e sociale, in modo da consentire un adeguato bilanciamento con l’interesse pubblico alla certezza delle relazioni giuridiche che costituisce il limite coerentemente indicato dal nostro ordinamento al suo riconoscimento”.

Secondo la Cassazione, in conclusione: “L’interesse pubblico alla definizione certa dei generi, anche considerando le implicazioni che ne possono conseguire in ordine alle relazioni familiari e filiali, non richiede il sacrificio del diritto alla conservazione della propria integrità psico fisica sotto lo specifico profilo dell’obbligo dell’intervento chirurgico inteso come segmento non eludibile dell’avvicinamento del some alla psiche. L’acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di un processo individuale che non ne postula la necessità, purché la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell’approdo finale sia accertata, ove necessario, mediante rigoroso accertamenti tecnici in sede giudiziale”.

La presidente dell’Associazione avv. Maria Grazia Sangalli esprime la propria soddisfazione per l’esito del procedimento “che ha finalmente chiarito che l’intervento chirurgico di riassegnazione – quando non è frutto di una scelta personale – è uno strumento lesivo dell’integrità fisica e della dignità umana.  In molti casi, le terapie ormonali e gli interventi sui caratteri sessuali secondari garantiscono alla persona di raggiungere il proprio equilibrio e fissare la propria identità di genere a prescindere dalla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari, che comporta interventi dolorosi, invasivi e con conseguenze negative in un’alta percentuale di casi”. Copia pdf della sentenza n. 15138/2015 LINK

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