Il concetto di famiglia, secondo l’ordinamento italiano include anche le unioni di fatto tra individui, di sesso diverso o dello stesso sesso. Lo ha affermato in una rilevante sentenza il Consiglio di Stato operando una rilettura sistematica della nozione di famiglia e di vita familiare nel nostro ordinamento, alla luce del contesto giuridico nazionale e sovranazionale.
Nel caso concreto, una donna straniera si era vista respingere la domanda di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro, in quanto tale rapporto risultava di natura sostanzialmente fittizia. Tuttavia, la questura non aveva tenuto conto che la signora aveva dichiarato e provato l’esistenza di una relazione di coppia tra lei e l’uomo che risultava suo datore di lavoro, che la rendeva idonea al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi familiari.
Infatti, le norme in materia di immigrazione stabiliscono che laddove non sussistano i presupposti per rilasciare o rinnovare il tipo di permesso di soggiorno richiesto dall’istante, l’ufficio interessato deve verificare se sia possibile rilasciare un altro tipo di permesso soggiorno.
Le norme in materia di immigrazione, stabiliscono, a tal proposito, che il permesso di soggiorno per motivi familiari è rilasciato agli stranieri regolarmente soggiornanti ad altro titolo da almeno un anno che abbiano contratto ‘matrimonio’ nel territorio dello Stato con cittadini italiani o di uno Stato membro dell’Unione europea, ovvero con cittadini stranieri regolarmente soggiornanti. Ritiene il Consiglio di Stato che questa previsione si debba applicare in via analogica anche “al partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata con documentazione ufficiale” per garantire l’uguaglianza sostanziale.
Ciò è imposto dal fatto che la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha chiarito che la nozione di “vita private e familiare” include anche le coppie di fatto, di sesso diverso o dello stesso sesso e che, nello specifico della materia immigratoria, la legislazione degli stati non può spingersi fino a negare all’individuo il diritto a vivere liberamente una condizione di coppia, intesa come vita familiare. Proprio in virtù dell’esistenza di rapporti affettivi, infatti, l’eventuale applicazione di una misura di allontanamento o di diniego del permesso di soggiorno provocherebbe, secondo la CEDU, un sacrificio sproporzionato del diritto fondamentale alla vita privata e familiare.
Inoltre, le “convivenze di fatto” hanno avuto un organico riconoscimento dalla legge 76 del 2016 che, in particolare, all’articolo 1, comma 37, ha stabilito che per l’accertamento della stabile convivenza si deve fare riferimento alla iscrizione presso l’anagrafe come famiglia anagrafica.
Ritiene, pertanto, il Consiglio di Stato che il fatto che la legislazione in materia di immigrazione non sia stata ancora aggiornata o coordinata con la nuova nozione giuridica di famiglia non è di ostacolo all’applicazione immediata e cogente, in via analogica, di principi costituzionali ed europei.
La portata della sentenza esorbita dal ristretto ambito dell’immigrazione. Già in passato, prima dell’entrata in vigore della legge 76, vi erano già state da parte della giurisprudenza riconoscimenti della più ampia nozione giuridica di famiglia alla luce dell’articolo 2 della Costituzione e della giurisprudenza nazionale e sovranazionale fino ad allora prodotta. Ad esempio, il Tribunale di Treviso aveva riconosciuto il diritto del partner dello stesso sesso ad ottenere l’affidamento dell’urna cinerarie del proprio compagno defunto.
Piace ricordare, in chiusura, che già nel 2006 l’Avv. Francesco Bilotta, socio fondatore di Rete Lenford, aveva enucleato questa ‘nuova’ nozione di famiglia sulla base del diritto dell’Unione europea e della giurisprudenza, chiedendo ai giudici italiani di farne applicazione in un caso relativo al permesso di soggiorno da riconoscere nell’ambito di una coppia dello stesso sesso. Allora i giudici non avevano ancora acquisito consapevolezza della nuova nozione di famiglia e avevano respinto le argomentazioni dell’Avv. Bilotta (Cassazione Civile, sez. I, sentenza 17/03/2009 n° 6441), ma per fortuna quel procedimento ha trovato un esito felice, dieci anni dopo, dinanzi alla CEDU (Sentenza Taddeucci e McCall c. Italia, 30 giugno 2016). Oggi, dopo questa sentenza del Consiglio di Stato, si conferma che il collega Bilotta aveva ragione e aveva avuto il coraggio e l’abilità, prima di altri, di vedere quello che ancora non si riusciva a vedere chiaramente.
di Antonio Rotelli, Co-fondatore di Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford
In allegato copia della sentenza del Consiglio di Stato
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