Anche gli ufficiali d’anagrafe e soprattutto di stato civile tenderanno nei prossimi giorni l’orecchio verso la Corte Costituzionale: quelle che arriveranno dal palazzo della Consulta saranno, invero, decisioni che avranno una ricaduta sulla loro attività. È negli uffici comunali che, infatti, si concretizza il procedimento di riconoscimento di ogni nascita con l’affermazione pubblica di chi sono i soggetti che si assumono la responsabilità genitoriale nei confronti di quel bimbo o quella bimba. Ed è un procedimento che ancor oggi sembra rivolgersi a una platea preferenzialmente rappresentata dal cliché tradizionale della famiglia composta da uomo e donna, coniugati, e figli (di default maschi). Più ci si allontana da questa matrice, assunta tradizionalmente a modello paradigmatico, più aumentano proporzionalmente le distinzioni lessicali, le differenze di trattamento, le possibili discriminazioni, a volte gli ostacoli.
Durante il matrimonio la filiazione viene considerata come una logica e naturale conseguenza del vincolo, per cui la sua attribuzione opera addirittura per presunzione: il bimbo o la bimba nati in costanza di matrimonio (salvo diversa dichiarazione) vengono ritenuti automaticamente figli dei due coniugi, attribuendo alla relazione filiale un valore di legittimità che semanticamente è stato abbandonato solo in tempi recenti. Senza la “garanzia” del matrimonio cessa la fiducia riposta nei genitori, i quali diventano tali solo a seguito di espressa manifestazione di volontà e, in alcuni casi, anche con necessità di gradimento accondiscendente da parte degli altri soggetti coinvolti nel legame (mi riferisco alla prestazione del consenso e/o dell’assenso imposto quale condizione necessaria e imprescindibile nei casi di riconoscimento successivo alla nascita prestato dal secondo genitore – che nessuno definisce intenzionale ma semplicemente naturale, quasi che è il figlio o figlia non l’avesse voluto, cercato e generato consapevolmente ma fosse la conseguenza di una situazione comportamentale).
Chi avrà la bontà di leggere queste mie semplici considerazioni è molto probabile che ci sia incappato o incappata perché ha già sviluppato una sensibilità, se non anche esperienza, riguardo i casi in cui la filiazione debba essere riconosciuta all’interno di una coppia omosessuale, o – ancor più arduo – in una coppia omosessuale non coniugata né unita civilmente. Per questa preparazione già acquisita dai miei lettori e lettrici non mi soffermerò a lungo sulle modalità per poter conferire valore legale ai legami che il cuore ha, invece, già saldato.
Abbiamo assistito in questi anni ad una applicazione delle norme (che dovrebbero invece avere caratteristica di universalità) a macchia di leopardo, isole felici accanto a rupi tarpee, che hanno portato ad avere comportamenti fortemente discriminatori, spesso annientando le legittime (queste sì) attese dei genitori, di garantire la più ampia protezione ai propri figli e figlie.
Come detto non mi soffermerò ad illustrare ciò che già ben si conosce ma mi preme sottolineare come in queste circostanze, nei casi di filiazione da riconoscere nell’ambito di coppie omosessuali si abbandoni completamente il valore assegnato negli altri casi alla “presunzione” o alla “dichiarazione” o alla “intenzione”: qui conta il materiale biologico. La determinazione del ruolo di genitore a pieno titolo avviene in base alla dote cellulare offerta nel processo di generazione. Le attese che vantiamo dei confronti delle prossime decisioni dei giudici della Corte Costituzionale sono note. Attese che sono ancor più forti e marcate nei riguardi del legislatore.
Il modello familiare che poco fa ho dichiarato paradigmatico oggi non è più lo stesso riferimento che era nei tempi passati. È superato nella considerazione della sua unicità: si sono affiancati nuovi modelli, nuove strutture familiari che devono godere tutte parimenti delle medesime opportunità di crescita, di sviluppo, di tutela. Sono inaccettabili le discriminazioni operate sui figli attraverso procedimenti di riconoscimento del vincolo genitoriale in alcuni casi complessi, in altri addirittura impossibili, gravandoli di una sorta di “peccato originario” legato alla condizione dei propri genitori. È profondamente ingiusto. È profondamente lontano dalla realtà dei fatti. La società si è modellata seguendo uno sviluppo (sostenuto anche dal progresso di conoscenze scientifiche e tecniche mediche) che non può non essere tenuto in considerazione per salvaguardare i diritti dei nati, il best interest, che vuole che prima di tutto godano di protezione e tutela da parte di chi li ha chiamati al mondo.
Approfitto dello spazio che mi è stato concesso per sollecitare, da questa ribalta qualificata e competente che è Rete Lenford, anche una serie di piccoli interventi (“piccoli” solo relativamente all’impegno che richiedono, non certo per il loro valore), che aiuterebbero i Servizi demografici ad essere un luogo un po’ più ospitale per i bimbi e le bimbe. Affermiamo sempre che sono il nostro futuro, sono coloro che ci sosterranno. Abbiamo l’obbligo – morale innanzitutto – di accoglierli nei nostri schedari e nei nostri registri senza creare discriminazioni (sempre inutili, in alcuni casi ancor di più perché non han proprio motivo di esistere sopravvivere), senza creare di conseguenza sofferenze. Ne segnalo tre, semplicissimi da realizzare, che potrebbero essere un ottimo punto di partenza per un processo di modernizzazione e adeguamento non più rinviabile
1) MODIFICARE LA FORMULA DELL’ATTO DI NASCITA
Le formule ministeriali – rigide nella loro applicazione – prevedono che il genitore (o altro dichiarante) dichiari che “è nato un bambino di sesso …”.
La parità di trattamento potrebbe – anzi dovrebbe – iniziare già dal primo documento che la vita gli riserva. Basterebbe un semplice decreto ministeriale che vada a modificare la formula nel modo seguente, eliminando ogni predefinizione linguistica: “è nat… un… bambin… di sesso …”, da completare a seconda della nascita di una bimba o di un bimbo.
2) ELIMINARE IL RICHIAMO AI “GENITORI” SULLA CARTA DI IDENTITà
È una storia che conosciamo si troppo bene. I minori di 14 anni possono viaggiare all’estero solo se accompagnati da una persona adulta, il cui nominativo deve comparire sul documento di identità o in un atto di “affido/accompagnamento” convalidato dalla Questura. Per facilitare l’espatrio, presumendo che la maggior parte dei viaggi un minore li compia con i propri genitori, le norme prevedono che – a richiesta – i nominativi dei genitori (o di ha esercizio della responsabilità o tutela) siano riportati sulla carta di identità. Dopo che negli ultimi anni si era imposto che i genitori venissero identificati obbligatoriamente come padre e madre, un recentissimo decreto della ministra Lamorgese (in attesa del parere del Garante per la Privacy e del via libera dalla Conferenza Stato-Città per poter poi trovare applicazione pratica) ha riportato la definizione ad un più inclusivo genitori, che – per l’occasione che ha ispirato queste mie riflessioni e i contributi di tutti e tutte coloro che mi hanno anticipato – è un ottimo risultato, permettendo in tal modo di indicare senza difficoltà due madri o due padri. Non è però sufficiente a superare i limiti dell’esclusione a cui possono sentirsi dolorosamente marchiati i bimbi e le bimbe che non hanno genitori (plurale) perché la vita gli ha dato una sola madre o un solo padre o, ancor peggio, sono affidati alle cure di un tutore o di una tutrice che non si può chiamare genitore. Sarebbe tutto più semplice, più democratico, meno discriminante (e a quell’età le parole e le mancanze sono macigni) utilizzare una formula del seguente tenore: “Il/la titolare del documento è autorizzato/a a viaggiare all’estero accompagnato da …” da integrare con il nome di chi (padre/padri/madre/madri/tutore/tutrice/genitore adottivo…) ha la responsabilità su quel bimbo o bimba
3) ELIMINARE LE DICHIARAZIONI DI NASCITA TARDIVE
Dobbiamo superare tutte le forme di discriminazione, anche quando sono etichette innocue, che riserviamo a figli per colpe (o semplici condotte) imputabili ai genitori. Se sfoderate la vostra carta di identità e avete più di 25 anni, andando a leggere gli estremi del vostro atto di nascita dopo il numero è probabile che il 99,9% di voi ci legga il numero romano I seguito dalla lettera A. Nella complicata codifica degli atti dello stato civile ciò sta a significare che quell’atto è stato compilato secondo quelle che sono comunemente considerate condizioni di regolarità. Qualora la dichiarazione di nascita sia resa oltre i termini di legge, cioè successivamente i 10 giorni dall’evento, l’ufficiale di stato civile ha ancor oggi l’obbligo di redigere l’atto in una parte e serie diversa da quella “ordinaria”: la parte I, serie B, riservata a quelle che definiamo “dichiarazioni tardive”. Dichiarazioni sostanzialmente identiche a quelle in parte I serie A, per cui oggi non esistono motivi validi che giustifichino questo diverso trattamento. Tenete conto che nel corso del 2020 in moltissimi casi i genitori non han potuto presentarsi all’ufficio di stato civile entro i termini previsti perché erano sottoposti a isolamento, a quarantena o erano positivi al Covid-19. Bene: i loro figli e figlie si ritroveranno per tutta la vita una codifica dell’atto di nascita diverso (ormai senza motivo) e leggeranno I-B dove tutti gli altri hanno I-A. Mi rendo conto che è una inezia, una cosa di poco conto. Voglio però ri-sottolineare quello che ho già affermato poco fa: nessuna distinzione, men che meno discriminazione, deve essere operata sui figli a causa di comportamenti imputabili esclusivamente ai loro genitori.
I figli (e le figlie) sono figli.
Concludo ringraziando Rete Lenford per l’opportunità che mi ha offerto di condividere con voi questi pensieri e per aver voluto che il mio contributo venisse pubblicato in contemporanea con l’intervento della Sindaca di Crema, Stefania Bonaldi. La sua è una testimonianza straordinaria, di una Sindaca consapevole che il percorso di riconoscimento delle filiazioni che si generano all’interno di coppie omosessuali è un percorso sì in salita, ma non sbarrato. GUARDA IL VIDEO
Ha sempre saputo individuare le porte socchiuse dove altri non le vedevano e ha consapevolmente (ribadisco, consapevolmente: non sono mai state le sue azioni di protesta o provocazioni ma atti che nascono dalla conoscenza del perimetro entro cui agire) permesso a molte famiglie di essere tali.
Luca Tavani pubblicista, ufficiale d’anagrafe e stato civile
Con la sentenza n. 143 pubblicata martedì 23 luglio la Corte costituzionale ha dato risposta… Read More
Straordinario successo dell’associazione ‘Rete Lenford - Avvocatura per i diritti LGBTI+’: con ordinanza pubblicata oggi… Read More
Il 1° marzo scorso ha avuto inizio il progetto biennale di ricerca europeo “Enhancing the… Read More
In occasione della giornata mondiale contro l’omolesbobitransfobia che si celebra oggi 17 maggio, Rete Lenford… Read More
Con pronunce depositate oggi il Tribunale di Padova ha dichiarato inammissibili gli oltre trenta ricorsi… Read More
La Corte di Appello di Roma conferma che, nella carta d’identità dei figli e delle… Read More