Palermo pride. Il diritto che cerca i diritti

Una città bollente, semideserta, mi accoglie nelle ore più calde del giorno più lungo dell’anno, 21 giugno, solstizio d’estate.

Tutto tace, ma dai vicoletti e dai palazzoni della capitale siciliana sembra pregustarsi un’eco affollata. In questo silenzio si scorge tutto il peso della città dai  30 musei, dai 14 teatri, dalle 10 università e dal milione di abitanti, candidata a capitale europea della cultura nel 2019. La città che quest’anno ha accolto la massima manifestazione dell’orgoglio gay nazionale, il Pride 2013, il mio primo pride, proprio nel luogo del miracolo intellettuale: i Cantieri Culturali alla Zisa, un complesso di capannoni industriali dismessi e  convertiti in un mosaico formativo (sede del Goethe Institut, dell’Institut français, del centro Cinematografico, della Biblioteca e Centro Studi Gramsci, e tanto altro (1) ).

“I siciliani vanno condotti per mano – mi confessa un nativo palermitano – per loro indole sono inclini ad accettare la realtà, ciò che ‘c’è’, quindi soprattutto le diversità. Ecco perché il Pride nazionale a Palermo sarà fondamentale per l’integrazione”. Un messaggio perfettamente in linea con lo slogan della campagna antibullismo del 2008 di Stonewall dedicato alle scuole britanniche “Some people are gay. Get over it!” e importato, tradotto, dall’Arcigay: la diversità di orientamento sessuale è un fatto. Non si può far altro che accettarlo.

Europa

Non è un caso sia stata proprio l’Inghilterra a proporre un tale slogan, che sembra attecchire così bene in terra sicula. Due isole, lontane, ma “contigue”, abituate alla diversità culturale, ad un tessuto sociale frastagliato, terre di scambi e di confronto tra mondi opposti.

L’Inghilterra empirica, in cui la realtà precede il rimedio e “il rimedio precede il diritto”, una nazione in cui il pragmatismo individualista ha portato la Baronessa Hale, unica donna della storia alla Suprema Corte britannica, ad accettare la genitorialità delle coppie omosessuali in base al supremo interesse del minore. Ce lo spiega Marica Moscati, docente presso la School of Oriental and African Studies di Londra, durante il convegno “I diritti umani delle persone LGBTI ”(2), organizzato da “Rete Lenford – Avvocatura per i diritti Lgbti” ,(3) sotto la guida del Presidente Antonio Rotelli e del Prof. Francesco Bilotta, con la collaborazione di Amnesty International.

“Tra i fattori dell’apertura britannica e dell’attaccamento alla realtà fattuale, sicuramente ha rilevato una sorta di autocoscienza della House of Lords di non essere più rappresentativa della complessa società contemporanea”, costituita com’è, la Corte, solo da agiati, maschi, bianchi, di mezza età, “e dunque non più custode della moralità pubblica e dei costumi sociali”. E poi altri motori: l’affrancamento dal puritanesimo vittoriano, la forte presenza di avvocatesse per i diritti umani alla House of Lords, una chiesa anglicana abituata a non aver più il monopolio morale del regno, l’aumento di famiglie transnazionali e lo sviluppo di alternative sociali al matrimonio alla base delle cellule familiari.

Nessuna filosofia di “naturalità” sessuale, dunque ha spinto la giurisprudenza inglese nel suo progredire.

Tuttavia, la “naturalità” del diritto di famiglia è stata sempre un paradigma di ogni società, al punto che anche in luoghi giuridicamente ibridi (India, Giappone, Africa) lo “statuto della personalità” si è lasciato alle culture e tradizioni locali.

Quella naturalità che oggi ambienti elevati della Chiesa Cattolica tentano di restaurare in virtù di una “bonifica culturale per discernere l’alfabeto dell’umano” (A.Bagnasco) e ritrovare l’“ecologia dell’umano” (J.Ratzinger). Si arriva così alla teoriastraight, per cui la differenza dei sessi fonda l’ordine del pensiero e la famiglia è costretta in una concezione macellare della fecondazione. “E vi si contrappone il finto pensiero “gender” , una caricatura disegnata intorno ad un intero campo di studi per ridicolizzare ed attaccare meglio i movimenti che si battono per l’eguaglianza” ci tiene a sottolineare  nel suo intervento Sara Garbagnoli, dottoranda presso l’École des hautes études en sciences sociales di Parigi.

Nel frattempo, ci si professa non omofobi, per poter continuare meglio le discriminazioni.

È così che avviene in Russia, parola di Anthony Kuzmin, classe 1986, ingegnere biomedico di S.Pietroburgo, attivista gay. Un paese in cui si urla che l’“omofobia non esiste”, ma poi viene approvata una legge che considera reato fare propaganda per i diritti gay.

Tuttavia, in questi anni le istanze lgbt stanno imponendo, per quanto a fatica, un forte “mutamento di paradigma”(4) , una rivoluzione del pensiero. Una rivoluzione che tocca l’integrità mentale delle persone e porta ad una “torsione del diritto”: la sovversione della cosmologia della famiglia cattolica.

La “rivoluzione normale”, come Gay.it battezzò la sua campagna anti-omofobia. Una “rivoluzione gentile” come svela il sottotitolo dell’autobiografia di Franco Grillini (5)  regalatami la sera a tavola dall’autore in persona. Una rivoluzione che avviene lentamente, come affermano i magistrati Marco Gattuso e Anna Canepa, segretaria nazionale di Magistratura Democratica.

Ed è emblematico ragionare di rivoluzioni nella terra che di rivoluzioni ne ha vissute ben 4 dagli antichi Vespri siciliani fino ai moti del 1848, con recenti rigurgiti di “forconi”.

Notevole, invece, come anche stavolta, in Inghilterra non si possa parlare di rivoluzioni. La terra che è sfuggita ai moti rivoluzionari dell’era moderna, anche nel 2013 “apre” al matrimonio omosessuale inneggiando proprio alla conservazione. “Sono convervatore e in quanto tale conservo le tradizioni dell’occidente, tra cui l’uguaglianza – ha affermato orgoglioso il premier Cameron -. Per me essere conservatore vuol dire anche riconoscere il matrimonio gay” (6).  Sembra ascoltareZapatero che affermò di non poter accettare “compromessi” sull’uguaglianza formale: l’uguaglianza o c’è o non c’è. Se si un po’ meno uguali, si è diseguali, in un gioco aritmetico senza sconti.

In Francia, invece, la terra che le rivoluzioni le ha inventate, il matrimonio gay è stato un vero e proprio movimento dal basso. Non patrimonio ideologico del Parti Socialiste di Hollande, ma lotta quotidiana dell’esiguo gruppo dei Verdi, che già nel 2004 nel piccolo comune di Bègles “celebrò” il primo matrimonio gay. Fino ad arrivare, 9 anni dopo, al “Mariage pour tous” (7), fortemente voluto dal Ministro della Giustizia, Christiane Taubira, che non a caso ha voluto essere virtualmente presente al convegno di Palermo con un suo messaggio ufficiale a Rete Lenford.

Italia

In Italia, invece, la situazione è nota. Un’Italia che le r
ivoluzioni le ha salutate, ma mai concluse, un’Italia in cui (a differenza del resto del mondo) l’assenza di leggi che criminalizzassero l’omosessualità ha reso più difficile una battaglia “in positivo” sul tema. Lo spiega Sergio Lo Giudice, senatore del PD e grande attivista gay, intervenuto al convegno. “In Italia tutto rimaneva nell’ombra, nel privato e dunque più difficile da sdoganare”: l’omosessualità non è mai esistita (per il legislatore).

D’altro canto il matrimonio ha vissuto le sorti di un contratto. Non un contratto tra privati, come nella tradizione francese, inglese (con uno stato minimo) e tedesca (col dogma della volontà). Ma una contrattualizzazione della famiglia in cui è necessario il “consenso” dell’altro contraente, che sia lo Stato, la Chiesa, l’autorità imposta, la morale. La famiglia è costruita su un’entità polimorfa, sacra e al tempo stesso patriarcale e proprietaria, gelosa della trasmissione della ricchezza e del potere. Cellula di mediazione per lo stato sociale.

Su un fronte diverso, la nostra legge anti discriminazione (8)  è in sé discriminatoria, ci tiene a sottolineare Giusy D’Alconzo, direttrice dell’Ufficio Campagne e ricerca di Amnesty International Italia: recintare le discriminazioni in un numero chiuso, in cui si considera l’odio razziale ma non quello omofobico è qualcosa di indecente.

Tuttavia, il cammino per il riconoscimento dei diritti alle persone omosessuali è iniziato su più fronti. Innanzitutto a livello giurisprudenziale, forte dell’art. 3, 2° comma della Costituzione che impone a tutti (quindi anche ai giudici) di eliminare ostacoli (anche normativi e di costume) che impediscano lo sviluppo della persona umana (come appunto un trattamento discriminatorio in tema di famiglia). A ciò si aggiunge la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e varie sentenze supreme, come la 138/2010 della Corte Costituzionale che riconosce le famiglie omosessuali come “formazioni sociali” o la sentenza 4184/2012 della Cassazione per cui la diversità di sesso non è più un requisito necessario per la validità del matrimonio. “Serve una giurisprudenza creativa” e quanto più persuasiva, rimarca Francesco Bilotta, accademico da anni punto di riferimento italiano su questi temi.

Il materiale, del resto, non manca. Nel 1990, infatti, l’omosessualità è stata rimossa dall’elenco delle patologie psichiatriche dell’OMS, da questo momento si può tecnicamente considerare l’omosessualità come una qualsiasi variabile della persona, come il colore dei capelli. 20 anni dopo, la giurisprudenza ha riconosciuto il matrimonio come diritto fondamentale. (9)  È così che si viene a creare il paradosso per cui è negato un diritto fondamentale (in nome della Costituzione!) alle persone, diciamo così, che hanno i capelli di un certo colore. Ci riflette Marco Gattuso, magistrato bolognese, il patron di un piccolo miracolo giuridico: il portale www.articolo29.it. Il sito nasce a fondazione di una sfida culturale e giuridica: un Codice LGBTI, che superando la concezione storica del “codice”, unisce giurisprudenza, legislazione e dottrina verso un corpus di diritti delle persone omosessuali e per di più online e in continuo aggiornamento.

Sul piano della dottrina il cammino è molto fitto. Ci si rammarica solo che i diritti gay siano materia di studio quasi esclusivamente di costituzionalisti, nella diffusa indifferenza degli studiosi di diritto privato.

Sul fronte politico-legislativo, invece, l’idea comune è quella di una strumentalizzazione (in negativo o in positivo) da parte dei politici della questione omosessuale. Lo si dice a chiare lettere,  non senza una punta di ottimismo, proprio mentre senatori e deputati come Ivan Scalfarotto, Sergio Lo Giudice, Alessandro Zan, Michela Marzano, affollano le vie del Gay Village in quelle ore.

E non è un caso, infatti, che in Parlamento siano calendarizzate le proposte di legge sull’aggravante d’odio per omofobia e transfobia (firmata da 216 parlamentari, una delle proposte più sottoscritte nella storia della Repubblica) e il matrimonio omosessuale (presentato da Pd e Pdl, i cui relatori hanno affermato che non serve revisione costituzionale per estendere il matrimonio alle coppie gay, ma basta un atto legislativo ordinario), i cui redattori sono proprio gli esperti di Rete Lenford – Avvocatura Lgbti.

Fuori dall’Europa

Sogni tangibili o fragili illusioni, maggiormente se confrontati ad un contesto diverso, ad un’altra tavola rotonda (nella seconda sessione del convegno, a tema “La marcia per l’affermazione dei diritti delle persone Lgbti a livello internazionale: i casi di Russia, Uganda, Algeria, Francia e Italia”), in cui tre tra i relatori presenti rischiano ogni giorno la propria libertà personale.

Sì, perché nel mondo si cammina in due direzioni opposte. Il tavolo degli studiosi europei, tra tanto sconforto non può nascondere qualche vena d’ottimismo, mentre il tavolo degli attivisti perseguitati sembra aver finito la forza di urlare, in una spirale al “sempre peggio”. Da un lato si scrutano sprazzi sorridenti di un cammino verso l’uguaglianza, dall’altro lato, invece, si chiede al pubblico di non fotografare “la parte destra del tavolo”, perché tra i relatori c’è un perseguitato politico.

Ed ecco che Russia, Algeria e Uganda sono tre simboli di tre regioni culturali, l’Asia, l’Islam e l’Africa.

Una Russia in cui l’esasperarsi dell’integralismo religioso costringe all’ignoranza riguardo ai diritti gay, al concetto di “orientamento sessuale” e alla totale invisibilità del transessualismo. Fino ad arrivare al divieto di libertà di identità sessuale tra i minori, con la gran pressione che viene fatta ai ragazzi nelle scuole in cui i “lobbisti della tradizione” prendono il posto di psicologi ed insegnanti liberi.

In Uganda la violenza omofoba è spalleggiata da uno stato totalmente maschilista, in cui l’integralismo religioso viaggia sul binario parallelo all’ignoranza e al tabù sessuale, corroborando la morte sociale, ancor prima che giuridica, dell’omosessuale. Un paese in cui dichiararsi gay in televisione o davanti ad un’autorità fa scattare l’arresto, senza alcuna garanzia di legalità. Ce lo spiega Kasha Jacqueline Nabagesera, fondatrice e direttrice esecutiva dell’organizzazione per i diritti Lgbti Freedom and Roam Uganda. Voce tremula, emozionata. “È il mio ultimo convegno da presidente del mio gruppo” dice. Poi un sospiro “rischio ogni giorno di essere arrestata, per questa mia battaglia”.

Forse anche peggiore è la situazione dell’Algeria, dopo che la primavera araba ha prodotto una rigida islamizzazione di tutto il Nord Africa, col risultato che i nuovi governi, per fare qualche concessione alle istanze integraliste, agiscono sulle leggi “a costo zero”, come appunto la criminalizzazione dell’omosessualità.

Dagli 1 ai 3 anni di carcere, questa la pena per l’omosessualità in uno stato in cui l’art. 2  d
ella Cost. recita fiero: “L’islam è la religione di stato”. Nel frattempo giuristi e medici sono al tavolo per inasprire le pene e affrontare il grave problema del possibile “contagio” in carcere dell’omosessualità ai detenuti etero. L’epilogo è stata la condanna a morte di due persone omosessuali “sposatesi su Facebook”. Ai limiti della follia. Ne parla incredulo e   spaventato, seppur fiero, Zoheir Djazeiri, Coordinatore nazionale dell’associazione Lgbti algerina Abu Nawas e fondatore del Forum gay algerino Algay.

Che sia un mondo a due velocità e in due direzioni opposte è facilmente riscontrabile qualora i Paesi occidentali tentano di vincolare a moratorie anti-omofobia gli aiuti economici verso i paesi africani, vitali per la loro sopravvivenza economica. In un cocktail di imperialismo culturale e universalismo dei diritti umani, la reazione è delle peggiori: uccisioni e assalti ai concittadini gay, rei di essere causa di un possibile blocco dei prestiti occidentali; divieto per le associazioni di ricevere finanziamenti dall’estero, e così via.

Mondi paralleli, ma a geometrie variabili, rivoluzioni concluse, iniziate, in contromano, conservazioni rivoluzionarie. “Sparuti e incostanti sprazzi di bellezza”, mentre un papà, col passeggino e la moglie accanto, cammina per le vie del gay village con un adesivo del Pride sul cuore. E sorride, in quel piccolo enclave di futuro, in un’Italia che vive di passato.

Gianclaudio MALGIERI

Note

(1)  http://www.cantierizisa.it

(2)  LGBTI è l’acronimo utilizzato, anche  a livello internazionale, per “Lesbiche Gay Bisessuali Transessuali e Intersessuati”.

(3)  http://www.retelenford.it

(4) Come teorizzato da Thomas S. Kuhn nella sua celebre opera The Structure of Scientific Revolutions, University of Chicago Press, 1962

(5)  Ecce Omo, 25 anni di rivoluzione gentile, Milano, 2008

(6)  http://www.huffingtonpost.co.uk/2013/05/22/david-cameron-gay-marriage_n_3317340.html

(7) Una legge, però, che nella sua semplicità incorre in un problema giuridico: si estendono tutte le norme del Code civil  riferite alle coppie etero alle coppie omosessuali, con l’evidente problema di lasciare tutta la legislazione speciale (es. Fecondazione eterologo) immutata e dunque ancora esclusiva per le coppie etero.

(8) La c.d. Legge Mancino, Legge n. 205 del 25 giugno 1993.

(9) Per un rapido resoconto, cfr. http://www.litis.it/2013/06/17/la-corte-di-cassazione-alla-ricerca-dellattuazione-dei-diritti-fondamentali-di-mariabice-schiavi/

fonte: laclessidra.net – pubblicato in data 27 giu 2013 da Gianclaudio Malgieri – link

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