Svolgimento del processo
Con sentenza del 4 marzo – 21 aprile 1998 il Tribunale di Palermo rigettava la domanda con la quale Cristina S., dopo aver ottenuto dall’ autorità ecclesiastica la dispensa dal matrimonio contratto con Stefano B. e dallo stesso Tribunale la sentenza di divorzio per inconsumazione, aveva chiesto che l’ex coniuge fosse condannato al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale subito a causa della sua condotta illecita e contraria ai canoni di lealtà, correttezza e buona fede, per non averla informata prima delle nozze delle sue condizioni fisico-psichiche o della sua incapacità coeundi, e per aver omesso dopo il matrimonio, onde evitare che le sue condizioni di salute fossero conosciute da terzi, di sottoporsi alle opportune cure.
Proposto appello dalla S. ed appello incidentale dal B. in ordine alla disposta compensazione delle spese, con sentenza del 2 maggio – 19 giugno 2001 la Corte di appello di Palermo rigettava entrambe le impugnazioni e compensava le spese del grado.
Osservava in motivazione la Corte territoriale, quanto alla condotta posta in essere precedentemente alle nozze,, che il dovere di informazione asseritamente violato presupponeva la consapevolezza da parte del B. della sua malformazione; che tale circostanza poteva ritenersi acquisita in giudizio; che il predetto aveva volontariamente disatteso l’obbligo di comunicare alla fidanzata i suoi problemi sessuali; che parimenti certo era che la S. non avrebbe contratto le nozze se fosse stata dì essi informata; che tuttavia, trovando il danno ingiusto dedotto la propria fonte nella celebrazione di i un matrimonio infelice, tale evento non poteva che essere disciplinato dai corrispondenti istituti del diritto di famiglia, non residuando margini per l’applicazione della norma generale di cui all’ articolo 2043 Cc.
Osservava in particolare che il mancato assolvimento del debito coniugale da parte del marito, determinato da causa patologica, non costituiva in sé fatto doloso o colposo al quale collegare la lesione dell’interesse della S. a vedersi realizzata come donna, come moglie e come possibile madre, essendo stata in realtà tale aspirazione frustrata dalla malattia del marito, al medesimo non addebitabile; né detta aspirazione avrebbe potuto realizzarsi ove ella avesse saputo preventivamente della malformazione del futuro coniuge. E pertanto l’unico evento suscettibile di essere evitato ove il promesso sposo avesse informato la fidanzata sarebbe stato il matrimonio stesso, ma tale evenienza era emendabile solo mediante annullamento per errore essenziale sulle qualità personali o con il divorzio per mancata consumazione, conseguito appunto nella specie.
Aggiungeva che a diversa soluzione avrebbe potuto pervenirsi se la S. avesse esercitato, nel prescritto termine annuale, l’azione di nullità del matrimonio, sanzionando gli articoli 129 bis e 139 Cc la reticenza del coniuge cui sia addebitabile la nullità.
Rilevava infine, in relazione alla successiva condotta del B. oggetto di denuncia, che il mancato ricorso a cure specialistiche non si configurava come illecito civile, non solo perché in qualche misura il predetto aveva cercato di farsi curare, quanto perché l’esercizio del diritto sancito dall’ articolo 32 Costituzione, in base al quale nessuno può essere obbligato a sottoporsi a trattamento sanitario. non può valutarsi come fonte di responsabilità aquiliana, ed anzi ha carattere preminente rispetto al dovere della traditio corporis nascente dal matrimonio.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la S. deducendo sei motivi. Il B. ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale fondato su un unico motivo.
Motivi della decisione
Va innanzi tutto disposta la riunione del ricorso principale e di quello incidentale, ai sensi dell’articolo 335 Cpc.
Con il primo motivo del proprio ricorso la S., denunciando erronea e falsa applicazione degli articoli 122 e 129 bis Cc, violazione dell’ articolo 2043 Cc, violazione degli articoli 115 e 116 Cc, omissione e/o insufficienza di motivazione, sostiene che la sentenza impugnata ha erroneamente scisso la condotta dei B. prospettata come fonte di responsabilità civile in due distinte frazioni, relative al periodo precedente e a quello successivo al matrimonio, traendo da tale scissione altrettanto erronee conseguenze, atteso che con l’azione proposta era stato dedotto un unico comportamento illecito e l’ingiustizia dei danni dallo stesso derivati.
Più in particolare, richiamato il principio secondo il quale solo l’impotenza perpetua costituisce causa di nullità del matrimonio, osserva la ricorrente che la Corte di Appello avrebbe dovuto accertare, a fronte delle contestazioni del B. ed in accoglimento di istanza dell’ appellante, se l’impotenza denunciata avesse natura permanente o fosse emendabile con le opportune cure e se nel procedimento dinanzi all’autorità ecclesiastica, che aveva concesso la dispensa super rato, fosse emerso che l’inconsumazione era riferibile ad impotenza perpetua del coniuge.
Con il secondo motivo si deduce che la sentenza impugnata, nell’ affermare che la S. disponeva dell’alternativa di chiedere l’annullamento dei matrimonio, beneficiando dei contributi economici previsti dalla relativa disciplina, o ottenere il divorzio, con esclusione di ogni pretesa risarcitoria, stante la possibilità di ottenere l’assegno divorzile, ha disatteso la consolidata giurisprudenza che attribuisce a detto assegno finzione assistenziale, e non risarcitoria, ed ha violato i principi elaborati in sede di legittimità circa la risarcibilità del danno ingiusto.
Con il terzo motivo, denunciando erronea e falsa applicazione degli articoli 122 e 129 bis Cc, violazione dell’ articolo 2043 Cc, si sostiene che la sentenza impugnata non ha spiegato la ragione per la quale l’azione risarcitoria sarebbe incompatibile con la pretesa indennitaria a tutela del coniuge di buona fede prevista dall’articolo 129 bis Cc nel caso di annullamento del matrimonio.
Con il quarto motivo, denunciando violazione dell’articolo 143 Cc in relazione agli articoli 2 e 29 Costituzione ed erronea applicazione dell’articolo 32 Costituzione, si deduce, in relazione alla condotta tenuta dal B. durante la vita matrimoniale, che la libertà costituzionalmente garantita a ciascuno di non sottoporsi a trattamenti sanitari non può essere causa di conseguenze pregiudizievoli nei confronti di altri soggetti, e che pertanto detta libertà non escludeva che egli potesse sottoporsi spontaneamente alle opportune cure, nel rispetto dell’altro principio costituzionale di cui all’articolo 29 Costituzione
Con il quinto motivo, denunciando violazione degli articoli 115 c.p.c. e 2043 Cc, si osserva che l’affermazione della sentenza impugnata secondo la quale il mancato assolvimento del debito coniugale non era imputabile al B. è priva di riscontri obiettivi, essendo stata preclusa all’attrice la possibilità di fornire le prove al riguardo dedotte e disattesa la sua richiesta di consulenza tecnica, dalla quale avrebbe potuto risultare l’esistenza di una patologia emendabile, e quindi la colpa del coniuge nel sottrarsi alle cure necessarie.
Con l’ultimo motivo. denunciando violazione degli articoli 2043 e 143 Cc, 2 e 29 Costituzione, si sostiene che, una volta ritenuto il comportamento colpevole del B. per non aver informato la fidanzata dei propri problemi sessuali, avrebbe dovuto ravvisarsi la lesione di un interesse giuridicamente rilevante della medesima, suscettibile di ristoro in forza della clausola generale di cui all’articolo 2043 Cc, sulla base dei principi elaborati in materia di responsabilità aquiliana dalla più recente giurisprudenza di legittimità. In applicazione di tali principi, e tenuto conto che la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio può essere causa di danno ingiusto, fonte di responsabilità risarcitoria, avrebbe dovuto procedersi ad una
comparazione degli interessi in conflitto al fine di accertare se il sacrificio dell’interesse del soggetto danneggiato trovasse o meno giustificazione nella realizzazione di un contrapposto interesse dell’autore della condotta, in ragione della sua prevalenza.
I motivi così sintetizzati vanno esaminati congiuntamente, in quanto investono sotto diversi profili la complessa problematica relativa alla configurabilità di una responsabilità aquiliana nell’ambito dei rapporti coniugali e familiari, sulla quale questa Suprema Corte ha fornito non numerose e non univoche risposte, ed anche la dottrina specialistica è approdata a conclusioni differenziate.
Nella risalente sentenza 2468/75 la soluzione positiva della questione appare quasi scontata, lì dove si afferma non potersi escludere a priori che l’adulterio, nel particolare ambiente in cui vivono i coniugi, sia causa di tanto discredito da costituire per l’altro coniuge fonte di danno, a carattere patrimoniale, nella vita di relazione, e che pertanto la violazione da parte di un coniuge dell’obbligo di fedeltà, a prescindere dalle conseguenze sui rapporti di natura personale, possa determinare, in concorso di particolari circostanze, un obbligo risarcitorio in favore del coniuge danneggiato. A diversa soluzione sono pervenute le due sentenze 3367 e 4108 del 1993 – la prima delle quali ha affermato che nel caso di addebito della separazione la tutela risarcitoria di cui all’articolo 2043 Cc non può essere invocata per la mancanza di un danno ingiusto, non integrando l’addebito della separazione la violazione di un diritto dell’ altro coniuge, mentre la seconda ha osservato che dalla separazione personale dei coniugi può nascere, sul piano economico, soltanto il diritto all’assegno di mantenimento, sempre che ne sussistano i presupposti di legge, e che tale diritto esclude la possibilità di chiedere anche il risarcimento dei danni a qualsiasi titolo subiti a causa della separazione imputabile all’altro coniuge, costituendo la separazione personale un diritto attinente alla libertà della persona ed avendo il legislatore specificamente, e quindi esaustivamente previsto le sue conseguenze all’interno della disciplina del diritto di famiglia.
Da tale orientamento, che chiaramente si fonda sul convincimento che le regole che disciplinano la materia familiare costituiscano un sistema chiuso e completo, a sua volta si è discostata la successiva sentenza 5866/95, la quale, pur affermando che l’addebito della separazione non costituisce di per sé fonte di responsabilità extracontrattuale, ha ammesso in linea teorica la risarcibilità del danno, oltre l’eventuale diritto all’assegno, ove i fatti che hanno dato luogo all’addebito integrino gli estremi dell’ illecito ipotizzato dall’articolo 2043 Cc
Va infine richiamata la più recente sentenza di questa sezione 7713/00, relativa alla diversa pretesa risarcitoria di un figlio nei confronti di un genitore, riconosciuto tale a seguito di dichiarazione giudiziale di paternità, che per anni gli aveva rifiutato i mezzi di sussistenza, secondo la quale siffatta condotta dà luogo ad una lesione in sé di fondamentali diritti della persona inerenti alla qualità di figlio e di minore. collocati al vertice della gerarchia dei valori costituzionalmente garantiti, e conseguentemente può costituire fonte di responsabilità risarcitoria, indipendentemente dalla esistenza di perdite patrimoniali del danneggiato: si è osservato in tale decisione che una lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 2043 Cc impone di ritenere che tale disposizione sia diretta a compensare il sacrificio che detti valori subiscono a causa dell’illecito, cosi che la norma stessa, correlata agli articoli 2 e ss. Costituzione, deve necessariamente intendersi come comprensiva del risarcimento di tutti i danni che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana, indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che la lesione possa comportare.
In tale direzione sembra muoversi la giurisprudenza di merito, sempre più incline a ravvisare una responsabilità risarcitoria per violazione degli obblighi familiari.
Come appare evidente, la problematica si innesta in quella più ampia relativa alla risarcibilità della lesione di diritti fondamentali della persona, oggetto di ampia elaborazione nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, nel solco tracciato dalla nota sentenza della Corte Costituzionale 184/86, che nel dichiarare infondata la questione di costituzionalità dell’articolo 2059 Cc – proposta in riferimento agli articoli 2, 3, 24 e 32 Costituzione, sotto il profilo che esso prevederebbe la risarcibilità del danno per lesione dei diritto alla salute solo in conseguenza di un reato – ebbe ad affermare che la nonna scrutinata riguarda soltanto i danni morali soggettivi, mentre il pregiudizio ai diritti fondamentali della persona, come il decoro, il prestigio, la dignità e la salute, deve trovare indefettibile ristoro, in applicazione dell’articolo 2043 Cc, al di là dei limiti previsti per il risarcimento dei danni non patrimoniali derivanti da reato.
E’ altresì noto che il più recente orientamento di questa Suprema Corte, del quale le sentenze 8827 e 8828 del 2003 costituiscono fondamentali arresti, si esprime nel senso che nel sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale l’articolo 2059 CC riveste una funzione non più sanzionatoria, ma tipizzante dei singoli casi di risarcibilità del danno non patrimoniale, cosi che l’astratta previsione normativa deve intendersi come comprensiva di ogni danno di natura non patrimoniale derivante dalla lesione dei valori della persona, e dunque sia del danno morale soggettivo, consistente nella mera sofferenza psichica e nel patema d’animo, sia del danno biologico in senso stretto, configurabile in presenza di lesioni all’ integrità psico-fisica secondo i canoni fissati dalla scienza medica ( articolo 32 Costituzione), sia del danno derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale relativi alla persona.
In tale prospettiva, nell’ambito dell’articolo 2059 Cc trovano collocazione e protezione tutte quelle situazioni soggettive relative a perdite non patrimoniali subite dalla persona, per fatti illeciti determinanti un danno ingiusto e per la lesione di valori costituzionalmente protetti o specificamente tutelati da leggi speciali: ciò vale a dire che il rinvio recettizio dell’ articolo 2059 Cc ai casi determinati dalla legge non riguarda le sole ipotesi del danno morale soggettivo derivante da reato, ma vale ad assicurare la tutela anche alla lesione di diritti fondamentali della persona, atteso che in forza del rilievo costituzionale di tali diritti il risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla loro lesione non è soggetto alla riserva di legge posta dalla norma richiamata.
Tale impostazione ha ricevuto l’avallo della Corte Costituzionale con la sentenza 233/03, che investita ancora una volta della questione di incostituzionalità dell’articolo 2059 Cc ha affermato essere ormai superata la tradizionale affermazione secondo la quale il danno non patrimoniale riguardato dall’articolo 2059 Cc si identificherebbe con il cosiddetto danno morale soggettivo, ed ha dato espressamente atto che le sentenze 8827 e 8828 del 2003 della Corte di Cassazione hanno l’indubbio pregio di ricondurre a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della tutela risarcitoria dei danno alla persona.
Sul principio che il danno non patrimoniale è risarcibile non solo nei casi previsti dalla legge ordinaria, ma anche in quelli di lesione di valori della persona costituzionalmente protetti, non potendo il legislatore ordinario rifiutare, per la forza únplicìta nell’ inviolabilità di detti diritti, la riparazione mediante indennizzo, che costituisce la forma minima ed essenziale di tutela, la giurisprudenza di questa Suprema Corte è orinai saldamente attestata (v. in tal senso, tra le altre, Cassazione 16716/03; 17429/03; 1
9057/03;10482/03; 14488/04 ).
Sulla base di tale impostazione, cui il Collegio intende dare continuità, assume rilievo essenziale, non solo in relazione alla risarcibilità del danno non patrimoniale, ma anche, e prima ancora, ai fini della esperibilità dell’ azione di responsabilità, l’indagine se il diritto oggetto di lesione sia riconducibile a quelli meritevoli di tutela secondo il parametro costituzionale.
Né può fondatamente ritenersi che una disamina siffatta non abbia ragione di essere svolta nella fattispecie in esame, non trovando spazio applicativo il principio di indefettibilità della tutela risarcitoria per violazione di diritti fondamentali all’interno dell’istituto familiare, in ragione di una presunta completezza della relativa disciplina, tale da imporre di reperire unicamente al suo interno la regolamentazione dei rapporti familiari, anche in contrasto con le norme di altri rami dei diritto o con i principi generali dell’ ordinamento.
Costituisce acquisizione da tempo condivisa dalla giurisprudenza e dalla dottrina che nel sistema delineato dal legislatore del 1975 il modello di famiglia-istituzione, al quale il codice civile del 1942 era rimasto ancorato, è stato superato da quello di famiglia-comunità, i cui interessi non si pongono su un piano sovraordinato, ma si identificano con quelli solidali dei suoi componenti. La famiglia si configura ora come il luogo di incontro e di vita comune dei suoi membri, tra i quali si stabiliscono relazioni di affetto e di solidarietà riferibili a ciascuno di essi. Come si è osservato da alcuni Autori, di tale processo di valorizzazione della sfera individuale dei singoli componenti del nucleo costituisce emblematica espressione la recente legge 154/01 sulla violenza familiare, che prevede l’allontanamento per ordine del giudice dalla casa familiare dell’autore della violenza, nell’implicita attribuzione di prevalenza alla tutela della persona che ne sia stata vittima rispetto alle ragioni dell’unità della famiglia.
L’articolo 29 Costituzione, se da un lato giustifica l’articolata previsione di diritti ed obblighi derivanti dal matrimonio, dall’altro lato garantisce una eguaglianza fondata sui vincoli della responsabilità e della solidarietà: il principio di eguaglianza tra i coniugi costituisce mera specificazione del principio generale di eguaglianza dettato dall’articolo 3 Costituzione, e comporta il riconoscimento di uguali responsabilità dei coniugi nello svolgimento dei rapporti familiari e pari diritti di sviluppo e di arricchimento della loro personalità sia all’ interno del nucleo che nella vita di relazione. La famiglia si configura quindi non già come un luogo di compressione e di mortificazione di diritti irrinunciabili, ma come sede di autorealizzazione e di crescita,, segnata dal reciproco rispetto ed immune da ogni distinzione di ruoli, nell’ ambito della quali i singoli componenti conservano le loro essenziali connotazioni e ricevono riconoscimento e tutela, prima ancora che come coniugi, come persone, in adesione al disposto dell’articolo 2 Costituzione, che nel riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità delinea un sistema pluralistico ispirato al rispetto di tutte le aggregazioni sociali nelle quali la personalità di ogni individuo si esprime e si sviluppa.
E pertanto il rispetto della dignità e della personalità, nella sua interezza, di ogni componente dei nucleo familiare assume i connotati di un diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro componente della famiglia, cosi come da parte del terzo, costituisce il presupposto logico della responsabilità civile, non potendo chiaramente ritenersi che diritti definiti come inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i loro titolari Si pongano o meno all’interno di un contesto familiare.
E’ noto peraltro che i doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio non sono soltanto di carattere morale, ma hanno natura giuridica, come può desumersi dal reiterato riferimento contenuto nell’articolo 143 Cc alle nozioni di dovere, di obbligo e di diritto, dall’espresso riconoscimento nell’articolo 160 Cc della loro inderogabilità, dalle conseguenze che l’ordinamento giuridico fa derivare dalla loro violazione, onde è certamente ravvisabile un diritto soggettivo di un coniuge nei confronti dell’ altro a comportamenti conformi a detti obblighi ( v. sul punto Cassazione 7859/00, che ha qualificato l’obbligo di fedeltà coniugale regola di condotta imperativa).
Né potrebbe sostenersi, seguendo la richiamata impostazione volta ad esaltare la specificità e completezza del diritto di famiglia, che la violazione di obblighi siffatti trovi la propria sanzione nelle misure tipiche in esso previste, quali la stessa separazione o il divorzio, l’addebito della separazione, con ì suoi riflessi in tema di perdita del diritto all’ assegno e dei diritti successori, la sospensione del diritto all’assistenza morale e materiale nel caso di allontanamento senza giusta causa dalla residenza familiare ai sensi dell’articolo 146 Cc, l’assegno di divorzio. E’ invero agevole osservare che la separazione e il divorzio costituiscono strumenti accordati dall’ordinamento per porre rimedio a situazioni di impossibilità di prosecuzione della convivenza o di definitiva dissoluzione del vincolo; che la circostanza che il comportamento di un coniuge costituisca causa della separazione o del divorzio non esclude che esso possa integrare gli estremi di un illecito civile; che l’assegno di separazione e di divorzio hanno funzione assistenziale, e non risarcitoria; che la perdita del diritto all’ assegno di separazione a causa dell’addebito può trovare applicazione soltanto in via eventuale, in quanto colpisce solo il coniuge che ne avrebbe diritto, e non quello che deve corrisponderlo, e non opera quando il soggetto responsabile non sia titolare di mezzi. La natura, la funzione ed i limiti di ciascuno degli istituti innanzi richiamati rendono evidente che essi non sono strutturalmente incompatibili con la tutela generale dei diritti costituzionalmente garantiti, non escludendo la rilevanza che un determinato comportamento può rivestire ai fini della separazione o della cessazione del vincolo coniugale e delle conseguenti statuizioni di natura patrimoniale la concorrente rilevanza dello stesso comportamento quale fatto generatore di responsabilità aquiliana.
Appare peraltro opportuno precisare che non vengono qui in rilievo i comportamenti di minima efficacia lesiva, suscettibili di trovare composizione all’ interno della famiglia in forza di quello spirito di comprensione e tolleranza che è parte del dovere di reciproca assistenza. ma unicamente quelle condotte che per la loro intrinseca gravità si pongano come fatti di aggressione ai diritti fondamentali della persona. Deve pertanto escludersi che la mera violazione dei doveri matrimoniali o anche la pronuncia di addebito della separazione possano di per sé ed automaticamente integrare una responsabilità risarcitoria; così come deve affermarsi la necessità che sia accertato in giudizio il danno patrimoniale e non patrimoniale subito per effetto della lesione, nonché il nesso eziologico tra il fatto aggressivo ed il danno.
L’intensità dei doveri derivanti dal matrimonio, segnati da inderogabilità ed indisponibilità, non può non riflettersi sui rapporti tra le parti nella fase precedente il matrimonio, imponendo loro pur in mancanza, allo stato, di un vincolo coniugale, ma nella prospettiva della costituzione di tale vincolo un obbligo di lealtà, di correttezza e di solidarietà, che si sostanzia anche in un obbligo di informazione di ogni circostanza inerente le proprie condizioni psicofisiche e di ogni situazione idonea a compromettere la comunione materiale e spirituale alla quale il matrimonio è rivolto.
Applicando i richiamati principi alla fattispecie in esame, osserva la Corte che il diritto dei quale la ricorrente assume la lesione
assurge certamente al rango di diritto fondamentale della persona. E’ qui in discussione il diritto alla sessualità, che la dottrina costituzionalistica degli anni ottanta annoverava tra i nuovi diritti, e che certamente si sostanzia in una posizione soggettiva tutelata dalla Costituzione. Va al riguardo richiamata la sentenza n. 561 del 1987 della Corte Costituzionale,, la quale affermò che la sessualità costituisce uno degli essenziali modi di espressione della persona umana, che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l’ articolo 2 Costituzione impone di garantire. Soccorre ancora la sentenza n. 6607 del 1986 di questa Suprema Corte, che nell’ esaminare la pretesa risarcitoria di un coniuge nei confronti del terzo che aveva cagionato alla moglie l’impossibilità di rapporti, qualificò il diritto reciproco di ciascun coniuge al rapporti sessuali con l’altro coniuge come un diritto inerente alla persona, che ha per contenuto un modo di essere, un aspetto dello svolgimento della persona di ciascun coniuge nell’ ambito della famiglia, e precisò che la sua lesione è di per sé risarcibile, quale danno che non è né patrimoniale, né non patrimoniale, ma comunque rientra nella previsione dell’ articolo 2043 Cc
Viene ancora in discussione il diritto alla sessualità nella sua proiezione verso la procreazione, che costituisce una dimensione fondamentale della persona ed una delle finalità del matrimonio.
Viene insomma in rilievo una violazione della persona umana intesa nella sua totalità, nella sua libertà dignità, nella sua autonoma determinazione al matrimonio, nelle sue aspettative di armonica vita sessuale, nei suoi progetti di maternità, nella sua fiducia in una vita coniugale fondata sulla comunità, sulla solidarietà e sulla piena esplicazione delle proprie potenzialità nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela risiede negli articoli 2, 3, 29 e 30 Costituzione
Né può validamente sostenersi che il mancato ricorso da parte della S. alla tutela concessa dall’articolo 129 bis Cc al coniuge di buona fede, per avere la medesima optato per la domanda di divorzio piuttosto che per l’azione di impugnazione dei matrimonio al sensi dell’articolo 122 Cc, le precluda di avvalersi di uno strumento di tutela che le spetta nei confronti di tutti i consociati: ed invero l’indennità prevista dall’ articolo 129 bis Cc della quale è generalmente affermata la natura risarcitoria ( v. sul punto Cass. 1990 n. 8703), pur non disgiunta da profili a carattere sanzionatorio, in quanto spettante anche in difetto di prova del danno sofferto e facente carico al coniuge in mala fede costituisce misura specifica, conseguente alla pronuncia di nullità del vincolo che per la sua precisa funzione ed il suo limitato ambito di applicazione non si pone in termini di esclusione rispetto alla responsabilità generale conseguente all’attentato ad un valore dotato di tutela costituzionale.
La Corte di Appello ha ritenuto come acquisito in giudizio che il B. fosse pienamente consapevole prima dei matrimonio della sua malformazione: tale apprezzamento in fatto non è ovviamente censurabile in questa sede. Altrettanto incensurabile è l’ulteriore affermazione della stessa Corte che la S. non avrebbe contratto matrimonio ove fosse stata edotta dei problemi sessuali che affliggevano il fidanzato.
La Corte territoriale ha peraltro ritenuto, sulla base di una inaccettabile scissione tra omessa informazione alla fidanzata da parte B. circa la sua condizione fisica e mancato assolvimento dell’obbligo coniugale, che non fosse ravvisabile un illecito per non essere il medesimo responsabile di tale mancato assolvimento: in tale percorso argomentativo si annida chiaramente un errore di prospettiva, in quanto non si considera che è appunto l’omessa informazione ad integrare l’illecito, quale fatto violativo dell’obbligo di lealtà ivi richiamato, tale da indurre la S. secondo l’accertamento compiuto dalla stessa Corte ad un matrimonio che ove informata non avrebbe contratto, e che era destinato a sfociare nella dispensa e quindi nello scioglimento in sede civile.
Non appare per contro meritevole di censure la sentenza impugnata nella parte in cui ha negato i profili dell’illecito nel rifiuto del B. di sottoporsi alle opportune cure mediche, atteso che il necessario bilanciamento del diritto della S. con quello costituzionalmente tutelato di disporre liberamente del proprio colpo, sancito dall’articolo 32 Costituzione, non consente di attribuire prevalenza al primo di essi.
L’accertamento, nei limiti innanzi precisati, della lesione del diritto fondamentale della S. a realizzarsi pienamente nella famiglia e nella società come donna, come moglie ed eventualmente come madre vale a qualificare il danno subito in termini di ingiustizia, mentre restano da accertare le conseguenze pregiudizievoli alla medesima derivate sia sotto il profilo del danno patrimoniale che dei danno non patrimoniale. Resta invero onere dell’attrice provare l’entità del nocumento recato dall’illecito, salvo ovviamente l’intervento suppletivo del giudice ove i danni subiti non possano essere provati nel loro preciso ammontare.
In tali limiti va accolto il ricorso principale.
Il ricorso incidentale del B.. diretto a censurare la sentenza impugnata per ‘ aver disposto la compensazione delle spese del grado e confermato la compensazione di quelle dinanzi al Tribunale, resta logicamente assorbito.
La sentenza impugnata va pertanto cassata e la causa rinviata ad altro giudice, che si designa in altra sezione della Corte di Appello di Palermo., che si atterrà ai principi di diritto innanzi espressi, procederà all’espletamento della attività istruttoria richiesta dalle parti ai fini della prova del danno patrimoniale e non patrimoniale derivato dall’illecito e pronuncerà anche sulle spese di questo giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione, riunisce i ricorsi; accoglie il ricorso principale nei sensi di cui in motivazione e dichiara assorbito il ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese ad altra sezione della Corte di Appello di Palermo.
Così deciso in Roma il 18 aprile.
Depositata in cancelleria il 10 maggio 2005.