CONVIVENTE MORE UXORIO E CONIUGE

Nota a:

Tribunale Terni, 26/03/2009, sez. V

CONVIVENTE MORE UXORIO E CONIUGE: PER IL CODICE PENALE NON È LA STESSA COSA

Giur. merito 2009, 12, 3093

Vincenzo Pezzella
Giudice presso il Tribunale di Napoli

Sommario: 1. Premessa. – 2. I precedenti della Cassazione in materia di furto. – 3. Favoreggiamento personale e convivenza more uxorio: una giurisprudenza contrastante. – 4. Applicazioni in tema di legge sull’immigrazione e di sfruttamento della prostituzione. – 5. Il convivente more uxorio e l’obbligo di testimonianza. – 6. Per i maltrattamenti in famiglia è pacifica l’assimilazione delle due figure. – 7. Le circostanze aggravanti ex art. 577 c.p. – 8. Stabile convivenza e gratuito patrocinio. – 9. Convivente more uxorio e danno da reato. – 10. La tesi «aperta all’Europa» del giudice monocratico di Terni. – 11. Considerazioni conclusive: la condivisibile opzione della Corte costituzionale.

1. PREMESSA
Il Tribunale monocratico di Terni, con la sentenza in commento, ritorna su un tema più volte affrontato dalla giurisprudenza di merito degli ultimi anni, ponendosi il quesito della assimilabilità, in ambito penalistico, della figura del convivente more uxorio a quella del coniuge.
Lo fa, stavolta, con riferimento a quella particolare scriminante prevista per i delitti contro il patrimonio dall’art. 649 comma 1, n. 1 c.p. secondo cui «non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti da questo titolo (artt. 624 ss. c.p.) in danno del coniuge non legalmente separato».

2. I PRECEDENTI DELLA CASSAZIONE IN MATERIA DI FURTO
La giurisprudenza di legittimità, come ricordato dallo stesso giudice monocratico di Terni, è orientata in senso sfavorevole all’applicazione della speciale scriminante ex art. 649 comma 1 c.p. al convivente more uxorio.
In una pronuncia ormai risalente nel tempo è stato affermato che «in tema di reati contro il patrimonio, nel caso di convivenza more uxorio, non viene meno il carattere personale di alcuni beni che per loro natura, come è per i preziosi (sottratti nella specie dal convivente) non possono essere oggetto di detenzione comune, ma conservano il connotato di disponibilità autonoma, la cui lesione, pertanto, integra il delitto di furto e non quello di appropriazione indebita» (1) .
Più di recente, la Suprema Corte ha ribadito che «deve ritenersi integrato il reato di furto nel caso di sottrazione da parte del convivente di beni che per loro natura, come gli oggetti preziosi, non possono essere oggetto di detenzione comune, in quanto la convivenza more uxorio non fa venir meno il loro carattere personale e il connotato di disponibilità autonoma da parte dell’originario detentore» (2).
Il problema della compatibilità di tale norma con il dettato costituzionale è stato peraltro affrontato dalla Corte costituzionale in più occasioni, come si avrà modo di evidenziare nel dettaglio.
Va detto che la stessa sentenza in commento ricorda la pronuncia della Consulta sul punto del 1980, forse non a caso quella più datata, ma il giudice umbro se ne domanda la persistente attualità e opta per una «lettura diversa costituzionalmente orientata, e ancor, più, una lettura orientata in sede di ordinamento europeo».
In realtà la Consulta si è pronunciata sulla questione anche in tempi assai più recenti.
Si dirà in seguito della sentenza n. 8 del 1996, ampiamente richiamata da Cass., sez. VI, sent. n. 35967 del 2006, e dell’ordinanza n. 121 del 2004, con cui i giudici delle leggi hanno dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 307 e 384 c.p., sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. e la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità delle medesime disposizioni del codice penale, sollevata in riferimento all’art. 2 Cost.
È il passaggio operato dal giudice di Terni in cui si opera una lettura della nostra Costituzione alla luce di principi, che paiono contrastanti, affermatisi in sede sovranazionale che non pare condivisibile.
È fuori discussione, infatti, piaccia o meno, che la nostra Costituzione garantisca ex art. 29 una maggiore tutela alla famiglia fondata sul matrimonio.
È altrettanto indubbio che il concetto di famiglia abbia subito nella società attuale una evoluzione radicale rispetto a quello che aveva dinanzi a sé nel 1948 il legislatore costituente.
È perciò giusto dare un’interpretazione costituzionalmente orientata di norme quali l’art. 649 comma 1 c.p. che tenga conto dell’intero articolato della nostra Carta fondamentale.
Ciò che tuttavia non pare condivisibile è cercare di forzare il dato che se ne ricava, sovrapponendogli una produzione normativa europea che pare in contrasto.
È peraltro lo stesso giudice umbro a ricordare come la Corte costituzionale abbia ben precisato che le norme della CEDU sono norme interposte per il giudizio di costituzionalità e non direttamente applicabili nel nostro ordinamento (3).
Se dunque occorre pensare ad un nuovo concetto di famiglia la via maestra non può che essere quella della modifica del dettato costituzionale attraverso il procedimento all’uopo predisposto con l’art. 138 Cost.

3. FAVOREGGIAMENTO PERSONALE E CONVIVENZA MORE UXORIO: UNA GIURISPRUDENZA CONTRASTANTE
La sentenza in commento prende in esame i vari campi del diritto penale, e non solo, in cui ci si è posti il problema della possibile assimilabilità della figura del convivente more uxorio a quella del coniuge.
E pone l’accento su quei casi in cui la giurisprudenza (di merito o di legittimità) ha aperto un varco in senso positivo.
Nell’accingersi ad analizzare tali fattispecie, va tuttavia sottolineato – e lo si farà di volta in volta- che ciascuna delle norme richiamate fa riferimento a figure diverse dell’ambito familiare.
Così, se l’art. 649 comma 1 c.p. parla di «coniuge non legalmente separato», l’art. 384 c.p. si riferisce ai «prossimi congiunti». E ai prossimi congiunti si riferisce anche la norma di cui all’art. 199 c.p.p. in materia di testimonianza. Mentre quella di cui all’art 76 d.P.R. n. 115 del 2002 in materia di patrocinio a spese dello Stato fa riferimento alla «somma dei redditi conseguiti (…) da ogni componente della famiglia, compreso l’istante».
Ciò che si vuole dire, in altri termini, è che spesso le conclusioni diverse cui perviene la giurisprudenza paiono motivate dal diverso range di flessibilità che consente, in sede interpretativa, il dato letterale della norma.
Situazione senza dubbio più vicina a quella in esame è quella di cui all’art. 384 c.p., norma che prevede al comma 1 che «nei casi previsti dagli artt. 361, 362, 363, 364, 365, 366, 369, 371-bis, 371-ter, 372, 373, 374 e 378, non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà e nell’onore».
La causa di non punibilità, dunque, opera in relazione a reati che vanno dall’omessa denuncia di reato all’omissione di referto, dall’autocalunnia alle false informazioni al pubblico ministero, dalla falsa testimonianza al favoreggiamento personale.
Ed è prevista per i «prossimi congiunti» tra cui vanno ricompresi – a norma dell’art. 307 c.p. «gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii ed i nipoti» con la specificazione che «nella denominazione di prossimi congiunti non si comprendono gli affini, allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole».
Il richiamo, dunque, alla luce del combinato disposto degli artt. 384 e 307 c.p., è alla specifica figura del coniuge.
La giurisprudenza di legittimità si è perciò occupata in più occasioni della possibile equiparabilità a tale figura del convivente more uxorio ai fini del riconoscimento della causa di non punibilità ex art. 384 c.p. soprattutto in materia di favoreggiamento personale.
La Cassazione si è divisa sull’interpretazione da darsi oggi alla norma, con una netta prevalenza, tuttavia, per l’opzione negativa.
Isolata è rimasta in tal senso una pronuncia del 2004 in cui si esaminò una fattispecie relativa ad un’imputata la quale invocava la non punibilità per il favoreggiamento personale commesso per aiutare il convivente e si ebbe a propendere per il principio, favorevole all’equiparabilità (4), secondo cui anche la stabile convivenza more uxorio può dar luogo per analogia al riconoscimento della scriminante prevista dall’art. 384 c.p.
In realtà in quella pronuncia il principio venne affermato solo incidentalmente, laddove in ogni caso i giudici di legittimità diedero torto alla ricorrente.
Il caso era quello di una donna che, dopo che il suo compagno era stato colpito da un’ordinanza di custodia cautelare per il reato di calunnia, lo aveva aiutato a sottrarsi alle ricerche dell’Autorità Giudiziaria, ospitandolo nella propria abitazione.
Condannata in primo e secondo grado dal Tribunale e dalla Corte d’Appello di Napoli, l’imputata aveva proposto ricorso in Cassazione lamentando, tra l’altro, contraddizioni e incongruenze logiche nella motivazione, in quanto, a suo avviso, da un lato i giudici di secondo grado si erano serviti di innumerevoli riscontri estrinseci per fondare l’assunto secondo il quale ella non poteva non sapere che il proprio compagno fosse ricercato per il reato di calunnia e dall’altro, invece, avevano negato che potesse ritenersi provata la convivenza ai fini dell’applicazione dell’esimente di cui all’art. 384 comma 1 c.p.
In realtà, come rilevato dalla Cassazione, la motivazione della sentenza impugnata si basava sulla considerazione che la convivenza tra i due non fosse una convivenza more uxorio, instaurata prima e indipendentemente dal reato di calunnia per il quale l’uomo era ricercato, ma che la donna avesse dato ospitalità allo stesso in casa sua, dando luogo a un rapporto di convivenza occasionale, finalizzato al favoreggiamento dell’imputato.
I giudici di legittimità, dunque, rigettavano il ricorso evidenziando come, anche alla luce della circostanza che la donna aveva la propria residenza in altra parte della città notevolmente distante dalla dimora dell’imputata e ritenendo che secondo la ricostruzione dei fatti eseguita in primo e secondo grado esistesse, quindi, il presupposto per ritenere commesso il reato di favoreggiamento.
«Non vi era prova, invece, della convivenza stabile tra i due, more uxorio» – scrivevano i giudici nella sentenza n. 22398 del 2004 – «che avrebbe potuto dar luogo per analogia al riconoscimento della scriminante dell’art. 384 c.p.».
Null’altro diceva la Cassazione su quello che era ed è un punto dall’interpretazione non certamente pacifica.
Convince maggiormente, invece, anche per completezza ed esaustività della motivazione, la pronuncia, di segno contrario, con cui due anni dopo (5) i giudici di legittimità hanno affermato il principio che «non può essere applicata al convivente more uxorio resosi responsabile di favoreggiamento personale nei confronti dell’altro convivente la causa di non punibilità operante per il coniuge, ai sensi del combinato disposto degli artt. 384 comma 1 e 307 ult. comma, c.p.; il che manifestamente non si pone in contrasto con i principi di cui all’art. 3 Cost., avuto anche riguardo a quanto già affermato dalla stessa Corte costituzionale con pronunce nn. 124 del 1980, 39 del 1981, 352 del 1989, 8 del 1996, 121 del 2004».
Nel ricorso per Cassazione la ricorrente – ancora una volta condannata per favoreggiamento personale nei confronti del proprio convivente – deduceva la erronea applicazione dell’art. 384 c.p., sostenendo che i mutamenti intervenuti nella legislazione e nella giurisprudenza a seguito delle profonde trasformazioni della nostra società avrebbero portato alla sostanziale equiparazione della convivenza more uxorio al rapporto di coniugio.
Conseguentemente, essendo rimasto provato che ella era non solo convivente del proprio uomo, ma anche affidataria della figlia minore di costui, avrebbe dovuto essere ritenuta non punibile per avere commesso i fatti a lei ascritti per esservi stata costretta dalla necessità di salvare da un grave e inevitabile nocumento nella libertà e nell’onore un prossimo congiunto, dovendosi ritenere tale anche il convivente.
In caso di mancato accoglimento delle tesi prospettate, la difesa della donna eccepiva la illegittimità costituzionale dell’art. 384 c.p., «nella parte in cui, nonostante le modifiche legislative e quindi i modificati criteri di ragionevolezza, non ha esteso alla convivente more uxorio, per di più affidataria di una figlia minore del convivente, la ipotesi di non punibilità».
Tale situazione – secondo la prospettata questione – determinerebbe altresì «una iniqua ed ingiustificata differenza di trattamenti tra casi oramai ritenuti analoghi se non coincidenti dallo stesso sistema sostanziale (art. 3 Cost.)».
La Corte di legittimità rilevava tuttavia che la questione di costituzionalità eccepita dalla ricorrente si palesava manifestamente infondata in quanto il giudice delle leggi aveva già dichiarato la infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata, per contrasto con svariati parametri costituzionali (soprattutto gli artt. 2, 3 e 29 Cost.), nei riguardi dell’art. 384 c.p., nella parte in cui non estende al convivente di fatto la causa di non punibilità in tale disposizione prevista (ordinanza n. 352 del 1989; sentenze nn. 237 del 1986, 39 del 1981 e 124 del 1980).
Veniva rilevato come, «più recentemente, con la sentenza n. 8 del 1996, la Corte costituzionale ha confermato tale orientamento, puntualizzando che la trasformazione della coscienza e dei costumi sociali circa il fenomeno della convivenza di fatto (cui la giurisprudenza costituzionale non è indifferente) non autorizza tuttavia la perdita dei contorni caratteristici di ciascuna delle due situazioni, in una eccessiva visione unificatrice quale era quella proposta dal rimettente, secondo il quale esse non si sarebbero differenziate se non per il dato estrinseco e formale del vincolo».
La Cassazione rilevava ancora che «al contrario (…) la giurisprudenza costituzionale ha numerose volte sottolineato la diversità tra la convivenza di fatto, fondata su una affectio in ogni momento liberamente revocabile, ed il rapporto coniugale, caratterizzato da stabilità e da reciprocità di corrispettivi diritti e doveri. La Corte ha poi precisato che la richiesta piena assimilazione è “soprattutto” in contrasto con la valutazione differenziatrice data dalla stessa Costituzione, che ha ricollegato il rapporto more uxorio all’ambito della protezione dell’individuo nelle formazi
oni sociali (art. 2 Cost.) ed il rapporto coniugale all’ambito dell’art. 29 Cost., valutazione questa che costituisce un criterio vincolante di comprensione e classificazione, quindi di assimilazione e differenziazione, di fatti giuridicamente rilevanti».
«Ciò non esclude a priori – si legge ancora nella sentenza n. 35967 del 2006 – la comparabilità di discipline normative su aspetti particolari, alla stregua del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), ma, sotto questo profilo, la questione è inammissibile per molteplici ragioni: a) perché l’estensione delle cause di non punibilità, che costituiscono deroghe a norme penali generali, comporta una ponderazione tra interessi in conflitto che attiene in primo luogo alla discrezionalità del legislatore; b) perché, una volta confrontati gli opposti interessi (tutela della efficacia della funzione giudiziaria penale e tutela di aspetti della vita familiare), non necessariamente la posizione del convivente deve essere coincidente con quella del coniuge, stanti i citati tratti differenziali quanto a stabilità del rapporto; c) perché una dichiarazione di incostituzionalità che muova dalla asserita identità delle due posizioni comporterebbe ricadute normative consequenziali, aprendo il problema della equiparazione in tutti gli altri numerosi casi, in bonam ma anche in malam partem, nei quali si da rilievo a vincoli familiari ai fini della legge penale. Questi principi sono stati ribaditi dalla Corte costituzionale nella ordinanza n. 121 del 2004 che ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 307 e 384 c.p., sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. e la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità delle medesime disposizioni del codice penale, sollevata in riferimento all’art. 2 Cost.».
Ancora i giudici di legittimità evidenziavano che «per le ragioni sopra svolte non solo deve dichiararsi manifestamente infondata la sollevata questione di legittimità costituzionale, ma appare del tutto improponibile la prospettata equiparazione in via di interpretazione del convivente al coniuge ai fini della applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 384 c.p.» in quanto «una applicazione della norma in questo senso aprirebbe, infatti, inevitabilmente il problema della equiparazione anche in altri numerosi casi di previsioni legislative, talora anche in malam partem (ad es. artt. 570, 577 ult. comma, art. 605 c.p.), che danno rilievo, ai più diversi fini e nei più diversi campi del diritto, alla esistenza di rapporti di comunanza di vita di tipo familiare. Del resto in diversi settori dell’ordinamento risultano valutazioni differenziatici della convivenza di fatto e del rapporto di coniugio (in materia penale: C. cost., sent. n. 352 del 2000; in altre materie: C. cost., ord. nn. 204 del 2003, 491 del 2000, 481 del 2000, 313 del 2000, 1122 del 1988, sent nn. 461 del 2000, 166 e 2 del 1998, 127 del 1997, 310 del 1989, 423 del 1988 e 45 del 1980)».

4. APPLICAZIONI IN TEMA DI LEGGE SULL’IMMIGRAZIONE E DI SFRUTTAMENTO DELLA PROSTITUZIONE
In tema di immigrazione la Suprema Corte, richiamando la giurisprudenza della Corte costituzionale e in particolare l’ordinanza n. 313 del 2000 nonché il precedente di Cass. civ, sez. I, 24 febbraio 2004, n. 3622, ha di recente (6) affermato il principio che la convivenza more uxorio con una cittadina italiana non è ostativa all’applicazione dell’espulsione dello straniero a titolo di misura alternativa alla detenzione.
Scrivono in proposito i giudici di legittimità nella sentenza n. 24710 del 2008 che «la convivenza more uxorio con una cittadina italiana non può costituire legittimo motivo ostativo all’espulsione, in quanto nella giurisprudenza è stato ripetutamente stabilito che il divieto di espulsione di cittadino extracomunitario coniugato con cittadino ita liano o convivente con parenti entro il quarto grado di cittadinanza italiana, di cui al d.lg. 25 luglio 1998, n. 286, art. 19 comma 2, lett. c), risponde all’esigenza di tutelare da un lato l’unità della famiglia e dall’altro il vincolo parentale che riguarda persone che si trovano in una situazione di certezza di rapporti giuridici ed è invece assente nella convivenza more uxorio, non risultando possibile estendere l’equiparazione tra famiglia legittima e famiglia di fatto alla materia dell’immigrazione clandestina, disciplinata da norme di ordine pubblico e nella quale l’obbligo dell’espulsione incontra solo i limiti strettamente previsti dalla legge al fine di escludere facili elusioni alla normativa dettata per il controllo dei flussi migratori (Cass. civ. 24 febbraio 2004, n. 3622): con la precisazione che l’omessa equiparazione non rende la norma contraria al dettato costituzionale (C. cost. 20 luglio 2000, n. 313)».
L’equiparabilità non viene riconosciuta neanche in materia di aggravanti del reato di sfruttamento della prostituzione.
Anche qui, come si diceva all’inizio, occorre partire dal dato normativo.
L’art. 4 l. 20 febbraio 1958, n. 75 prevede al n. 3 come circostanza aggravante il cosiddetto lenocinio familiare, che si ha quando il colpevole dello sfruttamento sia «un ascendente, un affine in linea retta ascendente, il marito, il fratello, o la sorella, il padre o la madre adottivi, il tutore» (7).
L’indicazione della qualità e dei rapporti familiari viene considerata in proposito da unanime dottrina (8) assolutamente tassativa.
La giurisprudenza di legittimità, invece, è stata invece abbastanza altalenante circa il peso da attribuire alla convivenza (sia fondata sul matrimonio che more uxorio) ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 3 l. n. 75 del 1978.
Così se in una pronuncia del 1968 (9) si affermava il principio che «il fatto della convivenza, di per sé, non può mai costituire prova dello sfruttamento della prostituzione», in una pronuncia dello stesso periodo (10) la Cassazione affermava, però, che «il fatto di convivere more uxorio con una prostituta esercente il meretricio crea la legittima e grave presunzione che l’agente viva a spese della donna sfruttando i proventi che la stessa ricava dall’esercizio della sua turpe attività» e che «per potere vincere tale presunzione, è necessaria almeno la prova che l’imputato eserciti un mestiere più o meno lucroso o abbia un reddito sufficiente al suo sostentamento e al tenore di vita che conduce e, se e vero che il giudice deve investigare su tutti gli elementi che possono condurre all’accertamento della verità, nondimeno, in tal caso, l’onere di allegarli incombe all’imputato, ove non emergano altrimenti».
In epoca più recente (11) veniva ribadito che «in tema di reati di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, la convivenza di un individuo con una prostituta, anche more uxorio, non assurge, in sé, ad elemento integratore, ove non sia acclarata l’effettiva agevolazione e il profitto in danno della medesima da parte del convivente, dei reati stessi».
Ai fini della valenza indiziaria della convivenza, attenuando il rigore della precedente giurisprudenza, nella stessa sentenza n. 1260 del 1982, i giudici di legittimità precisavano che «tuttavia, questa circostanza accanto alle ammissioni poi ritrattate dalla prostituta, alle parziali ammissioni dell’agente, riguardanti sia la convivenza che la conoscenza, da parte sua, di sapere che la stessa si prostituiva – in costanza del rapporto di fatto con lui – e traeva cospicui guadagni da tale turpe attività; nonché al teno
re di vita lussuoso che egli conduceva, mentre era disoccupato, costituisce un elemento idoneo a far ritenere sussistenti i reati a lui ascritti».
La situazione del convivente more uxorio, ai fini della sussistenza del reato, è dunque analoga a quella del coniuge.
La Cassazione ha anche precisato che «l’instaurazione di un rapporto di convivenza di tipo familiare con una donna non discrimina, alla stregua di quanto avviene nei rapporti coniugali, l’attività di favoreggiamento e di sfruttamento della prostituzione di lei a nulla rilevando, data la ratio della norma incriminatrice, che i proventi della prostituzione siano impiegati allo scopo dichiarato di mandare avanti il “menage” familiare» (12).
Secondo la giurisprudenza ormai costante della Suprema Corte, configura il delitto di sfruttamento della prostituzione «la condotta del convivente more uxorio di una prostituta che, essendo disoccupato, abbia la consapevolezza che la stessa eserciti il meretricio, in quanto da tali elementi risulta la condizione parassitaria dello sfruttatore, il quale trae i mezzi di sussistenza, in tutto o in parte, dai guadagni della prostituta» (13).
Il delitto è ravvisabile anche se i proventi dell’attività di prostituzione vengano ceduti spontaneamente dalla meretrice al convivente per mandare avanti il «menage» familiare, qualora costui abbia la cosciente volontà di trarre vantaggio economico dalla prostituzione (14).
Il principio è stato recentemente ribadito laddove la Cassazione ha affermato che «risponde del reato di sfruttamento della prostituzione il marito o convivente della prostituta il quale, avendo la consapevolezza di tale attività, trae i propri mezzi di sussistenza, in tutto o in parte, dai guadagni della prostituta medesima, e ciò anche nel caso in cui i proventi dell’attività di prostituzione vengano ceduti spontaneamente per contribuire alla vita familiare» (15).

5. IL CONVIVENTE MORE UXORIO E L’OBBLIGO DI TESTIMONIANZA
Come ricordato anche nella sentenza in commento il nuovo codice di procedura penale all’art. 199 c.p.p. prevede, poi espressamente la facoltà di astensione dal deporre del convivente: «a chi pur non essendo coniuge dell’imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso».
Ebbene, già una prima lettura di tale norma lascia chiaramente intendere che la stessa porta acqua al mulino di chi sostiene la non equiparabilità del convivente more uxorio al coniuge e non viceversa.
Ed infatti emerge con palmare chiarezza che proprio in virtù di tale impossibilità il legislatore è intervenuto specificamente a prevedere che la facoltà di astensione fosse estesa anche a chi non è coniuge dell’imputato, ma con lo stesso conviva o abbia convissuto.
È evidente che se ciò fosse stato possibile in via interpretativa – ma evidentemente non lo era – sarebbe bastata la previsione della facoltà di astensione per i «prossimi congiunti» prevista al comma 1 e che era già contemplata nel codice di rito previgente all’art. 350, che non prevedeva alcun «allargamento» al convivente.
C’é stato, dunque, bisogno di un intervento ad hoc del legislatore del 1989 perché – come ha chiarito la giurisprudenza di legittimità – «l’art. 199 c.p.p., che disciplina la facoltà di astenersi dei prossimi congiunti dell’imputato, non è suscettibile di interpretazione estensiva, avendo il legislatore provveduto ad individuare, sulla base di criteri improntati a ragionevolezza e quindi conformi ai principi costituzionali quelle posizioni che, anche nell’ambito del rapporto familiare “di fatto”, sono state ritenute meritevoli di considerazione in relazione alle finalità della norma» (16).
È stato anche precisato, in proposito, che «l’accertamento di una situazione di famiglia di fatto e perciò di convivenza more uxorio, ai fini di riconoscere ad un soggetto non coniuge dell’imputato la facoltà di astenersi dal deporre ed il diritto di essere avvisato di tale facoltà, si risolve in una questione di fatto, sottratta al sindacato di legittimità se motivata secondo logici criteri» (17).

6. PER I MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA È PACIFICA L’ASSIMILAZIONE DELLE DUE FIGURE
Uno dei punti su cui fa forza l’interpretazione della norma offerta nella sentenza in commento è l’ormai pacifica affermazione in giurisprudenza della equiparabilità del convivente more uxorio al coniuge ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 572 c.p. (maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli) che incrimina chiunque, fuori dal caso di cui all’abuso dei mezzi di correzione e di disciplina sanzionato dall’art. 571 c.p., «maltratta una persona della famiglia o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte».
Il riferimento letterale della norma, dunque, stavolta è alla «persona della famiglia».
Già in una pronuncia risalente ad oltre quarant’anni or sono e, quindi, ad un’epoca in cui non era neanche all’orizzonte la riforma del diritto di famiglia e, ancor meno, la diffusione nella società delle unioni di fatto, si rilevava come agli effetti dell’applicazione della norma dovesse considerarsi «famiglia» ogni «consorzio di persone tra le quali, per intime relazioni e consuetudini di vita, siano sorti legami di reciproca assistenza e protezione» per cui «anche il legame di puro fatto stabilito tra un uomo e una donna vale pertanto a costituire una famiglia (…) quando risulti da una comunanza di vita e di affetti analoga a quella che si ha nel matrimonio» (18).
La giurisprudenza successiva è rimasta attestata nell’affermazione di tale principio (19).
«Il reato di maltrattamenti in famiglia – si leggeva in una pronuncia del 2005 (20) – è configurabile anche al di fuori della famiglia legittima, in presenza di un rapporto di stabile convivenza, come tale suscettibile di determinare obblighi di solidarietà e di mutua assistenza, senza che sia richiesto che tale convivenza abbia una certa durata, quanto piuttosto che sia stata istituita in una prospettiva di stabilità, quale che sia stato poi in concreto l’esito di tale comune decisione».
Il principio secondo cui agli effetti del delitto di cui all’art. 572 c.p., deve intendersi come «famiglia» ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo veniva ribadito qualche anno più tardi (21) con specifico riferimento alla sua configurabilità anche in danno di persona convivente more uxorio, quando si sia in presenza di un rapporto tendenzialmente stabile, sia pure naturale e di fatto, instaurato tra le due persone, con legami di reciproca assistenza e protezione.
E, ancora di recente, i giudici di legittimità ribadivano il principio nell’affrontare il caso caso di una convivenza di fatto di durata ultradecennale e connotata dalla nascita di due figlie, che aveva dato luogo ad una situazione qualificabile come «famiglia di fatto», ricompresa in quanto tale nell’ambito della tutela prevista dall’art. 572 c.p., nuovamente valorizzandosi il principio «che il richiamo contenuto nell’art. 572 c.p. alla «famiglia» deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra
le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo» (22).

7. LE CIRCOSTANZE AGGRAVANTI EX ART. 577 C.P.
L’art. 577 c.p. prevede al secondo comma una specifica circostanza aggravante (che comporta la reclusione da 24 a 30 anni se l’omicidio volontario è commesso contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi o il figlio adottivo o contro un affine in linea retta.
Stavolta, dunque, il riferimento è al coniuge.
Perciò, a differenza che per il reato di maltrattamenti in famiglia, la (inevitabile) conseguenza è che l’ambito di operatività della norma, allo stato della legislazione, deve rimanere ancorato a tale soggetto.
La questione di legittimità costituzionale dell’art. 577 comma 2 c.p. che era stata sollevata proprio in riferimento alla parte in cui tale norma prevede come aggravante la commissione del fatto contro il coniuge, sotto il profilo della disparità di trattamento rispetto all’ex coniuge e al convivente more uxorio, è stata ritenuta dalla Cassazione «manifestamente infondata in quanto il diverso trattamento normativo nei confronti del coniuge non è irrazionale, tenuto conto della sussistenza del rapporto di coniugio e del carattere di tendenziale stabilità e riconoscibilità del vincolo coniugale» (23).
Ai fini della configurabilità dell’aggravante del rapporto di «coniugio», prevista dall’art. 577 c.p., anche in relazione all’art. 585 stesso codice, i giudici di legittimità hanno ritenuto anche di dover precisare essere «ininfluente l’eventuale sussistenza del regime di separazione legale fra i due coniugi, regime che attenua il complesso degli obblighi nascenti dal matrimonio, eliminando segnatamente quello della coabitazione, ma non toglie lo status di coniuge, con i corrispondenti obblighi personali e permanenti che lo costituiscono, status che si perde solo con lo scioglimento del matrimonio» (24).
La norma in questione pare emblematica di come sia compito del Parlamento valutare il disvalore delle condotte e scegliere la sanzione da irrogare e la sua entità.
Nel caso delle aggravanti dell’omicidio, ad esempio, il legislatore – con una scelta che si può condividere o meno, ma che certo era di sua spettanza – ha previsto la sanzione massima dell’ergastolo per l’omicidio contro l’ascendente o il discendente e una meno grave (come detto in precedenza da 24 a 30 anni) se tale atto delittuoso è commesso contro il fratello o la sorella o anche contro i genitori adottivi.
Uguale aumento (fino a 1/3), essendo stato all’art. 583 c.p. operato un richiamo all’intero art. 577, è previsto invece per le lesioni personali e per l’omicidio preterintenzionale.
Va detto, in ogni caso, che il convivente more uxorio gode della maggiore tutela che gli offre, anche per i casi in cui sia vittima di reati contro la persona, la possibilità che al reo sia applicata la circostanza aggravante a carattere generale ex art. 61, n. 11, c.p.
Si tratta, peraltro, di un aggravante ulteriore applicabile anche in caso di coniugio.
Con riferimento a tale norma, infatti, è stato sottolineato in giurisprudenza che «non sussiste alcuna incompatibilità tra la circostanza aggravante generale prevista dall’art. 61, n. 11, c.p. e quella specifica del rapporto di coniugio di cui all’art. 577 dello stesso codice, dati il diverso fondamento oggettivo e la diversa ratio che caratterizzano le due fattispecie circostanziali. Ed invero l’aggravante prevista dall’art. 61, n. 11, c.p. ha natura oggettiva e consiste in una relazione di fatto tra l’imputato e la parte offesa che agevola la commissione del delitto, mentre il rapporto di coniugio è una circostanza speciale, di natura soggettiva, che ha il suo fondamento nel vincolo coniugale, unicamente preso in considerazione dal comma secondo dell’art. 577 c.p. al di fuori dell’ulteriore circostanza dell’eventuale coabitazione» (25).

8. STABILE CONVIVENZA E GRATUITO PATROCINIO
La diversa soluzione cui la giurisprudenza è pervenuta, pacificamente, per la materia del patrocinio a spese dello Stato, deriva ancora una volta dal diverso punto di riferimento normativo.
L’art. 3 l. n. 217 del 1990, ora trasfuso nell’art. 76 d.P.R. n. 115 del 2002, fa riferimento ai fini del computo del reddito al coniuge «e altri familiari» che convivano con l’istante. E la Cassazione ha precisato che «per la individuazione del reddito ai fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato occorre tenere conto, a norma dell’art. 76 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, della somma dei redditi facenti capo all’interessato e agli altri familiari conviventi, compreso il convivente more uxorio; in quest’ultimo caso, poiché tale convivenza realizza una situazione di fatto e non di diritto, la sua prova non può scaturire solo dalle risultanze anagrafiche, ma può essere tratta da ogni accertata evenienza fattuale che dia contezza della sussistenza del rapporto» (26).
Per il gratuito patrocinio, dunque, quello che conta è il reddito di coloro che convivono insieme.
Tanto è vero che, nel caso in cui un soggetto sia separato dal coniuge (che giuridicamente è ancora tale) e conviva more uxorio con altro compagno, è del reddito di quest’ultimo che si tiene conto ai fini del computo del reddito complessivo da valutare ai fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato e la giurisprudenza di legittimità ha precisato che in tale ipotesi «il giudice nel calcolare il reddito potrà operare le detrazioni degli assegni periodici corrisposti al coniuge separato solo se colui che ha chiesto di essere ammesso al gratuito patrocinio sia titolare di reddito proprio, non incombendo sul convivente more uxorio alcun onere di provvedere al mantenimento» (27).
Ove invece sia intervenuto il divorzio, viene meno quella presunzione di convivenza dei coniugi cui è correlata la cumulabilità dei rispettivi redditi. Tuttavia, è stato precisato in giurisprudenza che la pronuncia della sentenza di cessazione degli effetti civili non comporta, ex se, necessariamente, l’effettiva cessazione di quella convivenza dei coniugi alla quale è correlata la cumulabilità, ai suddetti fini, dei redditi (28).
Ha ragione il giudice di Terni nell’evidenziare che è ormai acquisizione consolidata (29) il principio secondo cui per la determinazione del reddito ai fini dell’ammissione al beneficio ex art. 76 d.P.R. n. 115 del 2002 deve tenersi conto, come rilevato in sede di legittimità, anche dei redditi del convivente more uxorio «perché l’evoluzione giurisprudenziale, attenta alla realtà sociale piuttosto che alla veste formale dell’unione tra due persone conviventi, ha condotto al riconoscimento della famiglia di fatto» (30).
La ragione, però, ancora una volta è che il riferimento normativo, operandosi un richiamo ai familiari conviventi e non alla specifica figura del coniuge, consentiva di pervenire a tale soluzione senza operare strappi che potessero configurare un’interpretazione analogica se non addirittura contra legem.

9. CONVIVENTE MORE UXORIO E DANNO DA REATO
La giurisprudenza in materia di risarcimento del danno da reato (e della conseguente legittimazione a costituirsi parte civile nel processo penale) ha subito una profonda evoluzione negli ultimi decenni.
Come si ricordava più ampiamente in una recente trattazione specifica (31) la giurisprudenza s
e n’è occupata, soprattutto, in materia di danno da uccisione, con particolare riferimento ai profili della risarcibilità del danno al convivente con il de cuius, ma che con lo stesso non avesse mai contratto matrimonio.
La tutela risarcitoria al convivente sopravvissuto, sulla scorta della tesi che voleva risarcibile solo il danno alla lesione di un diritto soggettivo, è stata senso a lungo negata in base alla considerazione che, in caso di convivenza di fatto, non vi era un’obbligazione alimentare nascente da un contratto.
Un unico spiraglio, secondo molti autori ispirato ad una sorta di favor ecclesiae, si apriva in origine soltanto nei casi di convivenza fondata su matrimonio canonico (32) .
E la giurisprudenza della Cassazione in materia è stata a lungo orientata ad una assoluta chiusura, tanto per il danno patrimoniale che per quello non patrimoniale.
Nei primi anni Ottanta i giudici di legittimità, in sede penale, nel vagliare il ricorso avverso il rigetto di una richiesta di costituzione di parte civile di un convivente nel processo per l’omicidio del proprio partner, convalidavano tale orientamento massimamente restrittivo (33). E ancora nel 1992, sempre in relazione alla costituzione di parte civile in un processo penale per omicidio volontario, veniva affermato che «in base al principio del neminem laedere, sancito nell’art. 2043 c.c., danno risarcibile è solo quello che si verifica per la lesione di un diritto», conseguendone che «nel caso di morte di una persona, il soggetto che con essa conviveva ricevendone vantaggi o prestazioni, che chiami in giudizio il responsabile dell’evento mortale, deve dimostrare il suo diritto a quei vantaggi ed a quelle prestazioni della persona deceduta; diritto che non può discendere che da legge o da patto» e che «nessuna di tali ipotesi ricorre nel caso di convivente more uxorio, che conseguentemente è carente di legitimatio ad causam per risarcimento dei danni cagionati dalla uccisione della persona con cui conviveva» (34).
Si è già avuto modo di rilevare, tuttavia, come il costume e la coscienza collettiva non potevano, man mano che si spostava l’attenzione del giurista dall’aspetto formale a quello sostanziale dell’affectio familiare, non evidenziare l’ingiustizia di una tale opzione (35).
Come in altre materie, nello stesso periodo, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, subito dopo la riforma del diritto di famiglia del 1975, furono per primi i giudici di merito ad iniziare un vero e proprio revirement, che partì dal riconoscimento al convivente more uxorio del solo diritto al risarcimento del danno morale. Ciò in quanto, secondo i giudici dell’epoca, il sopravvissuto, per essere risarcito del danno patrimoniale conseguente alla morte di una persona, doveva dimostrare un suo diritto patrimoniale che avrebbe potuto vantare se la vittima fosse rimasta in vita, diritto che poteva derivargli dalla legge o da una particolare convenzione. Ebbene – secondo tale tesi – il convivente more uxorio non poteva vantare nei confronti del partner alcuna pretesa di prestazione economica nei suoi confronti, tanto è vero che in qualunque momento la convivenza si sarebbe potuta interrompere, anche senza motivo, senza dare adito a pretese da parte di colui che veniva lasciato. Ergo, concludeva chi aderiva a tale impostazione, il sopravvissuto come non li aveva in vita, non aveva neanche dopo la morte del de cuius diritti patrimoniali da vantare.
Ricordavano nel 1984 i giudici della Corte d’Assise di Genova (36) che «la convivenza more uxorio, pur avendo ricevuto (…) significativi riconoscimenti a livello di diritto positivo, non ha ancora raggiunto quel livello di identificazione con la convivenza coniugale che possa portare al riconoscimento di un diritto della convivente al mantenimento o agli alimenti)» e richiamavano quella giurisprudenza di legittimità (37) che aveva sì rilevato come la convivenza more uxorio presentasse connotati sostanziali tipici del rapporto matrimoniale e costituisse, ai sensi dell’art. 2 Cost., una formazione sociale con funzioni di gratificazione affettiva e solidarietà sociale, ma aveva anche concluso che il dovere di assistenza reciproca derivante da tale rapporto secondo l’etica e la morale corrente, si configura come obbligazione naturale, «con l’unica tutela della soluti retentio (art. 2034 c.c.) e cioè con il solo limite giuridico dell’irripetibilità di quanto prestato».
Secondo tale impostazione, dunque, così come la convivente sopravvissuta al partner deceduto per fatto illecito altrui non avrebbe potuto esercitare alcuna azione civile quando il de cuius era in vita per ottenerne il mantenimento o gli alimenti, analogamente non aveva riportato alcun danno patrimoniale giuridicamente rilevante e come tale azionabile alla morte del compagno.
Si era ancora in quella fase in cui, secondo quanto si legge nella sentenza sopra citata della Corte di Assise di Genova, il danno patrimoniale doveva necessariamente trovare, perché ne fosse possibile chiedere il risarcimento «precisi agganci nel diritto del soggetto ad ottenere giudizialmente determinate prestazioni da parte della vittima» e se tali prestazioni non fossero dovute in vita non se ne poteva pretendere, dopo la morte, il risarcimento del danno subito da parte di chi della morte fosse ritenuto responsabile, perché quelle prestazioni, effettivamente corrisposte ma giuridicamente non dovute, erano venute meno.
I giudici della Corte di Assise di Genova (38) pervenivano a diverse conclusioni per il danno morale, sul presupposto che «il danno non patrimoniale, invece, consegue esclusivamente al reato e prescinde, logicamente e concettualmente, dall’esistenza di un’obbligazione di natura patrimoniale, per cui si deve soltanto valutare, per ricono scere il diritto al risarcimento, se quel danno sussista effettivamente e se esso sia ingiusto, venga cioè a colpire una situazione giuridica protetta dall’ordinamento», non rilevando «a tal fine, che tale situazione giuridica sia produttiva di veri e propri diritti soggettivi di carattere patrimoniale».
Quello che contava ai fini della risarcibilità del danno morale, dunque, secondo tale approdo giurisprudenziale, era che trattasse di una situazione tutelata, produttiva di effetti giuridicamente rilevanti. E non c’era il minimo dubbio che la convivenza more uxorio rientrasse in queste situazioni.
Già qualche anno più tardi, tuttavia, la Cassazione svincolava anche il diritto al risarcimento del danno patrimoniale dal requisito della convivenza affermando che «il risarcimento del danno compete, sia sotto il profilo patrimoniale che extrapatrimoniale, a tutti coloro che abbiano subito, sul piano economico e/o su quello morale, grave perturbamento dall’evento, sia a cagione del trauma affettivo patito, con tutte le implicazioni derivatene, sia per la privazione di un sostegno morale, sia infine per la perdita di un’entrata che ragionevolmente si sarebbe potuto presumere come duraturo vantaggio economico proveniente dall’attività lavorativa del congiunto, a nulla rilevando il fatto della convivenza con la vittima o le stesse qualità di erede di colui che ha diritto al risarcimento, posto che il diritto spetta a chi di ragione iure proprio» (39).
E sette anni dopo la Suprema Corte affermava esplicitamente, anche per la famiglia di fatto, che il diritto al risarcimento del danno patrimoniale spetta a chiunque abbia subito un effettivo pregiudizio in termini di lucro cessante dalla morte del de cuius per fatto illecito di terzi, prescindendosi dall’esistenza di un legame formalizzato o meno in un matrimonio.
Scrivevano i giudici di legittimità nel 1994 che nell’ipotesi de
lla cosiddetta «famiglia di fatto» (ossia di una relazione interpersonale, con carattere di tendenziale stabilità, di natura affettiva e parafamiliare, che si esplichi in una comunanza di vita e di interessi e nella reciproca assistenza morale e materiale) «la morte del convivente provocata da fatto ingiusto fa nascere il diritto dell’altro al risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 2059 c.c. (per il patema analogo a quello che si ingenera nell’ambito della famiglia) e del danno patrimoniale ai sensi dell’art. 2043 c.c. (per la perdita del contributo patrimoniale e personale apportato in vita, con carattere di stabilità, dal convivente defunto, irrilevante essendo invece la sopravvenuta mancanza di elargizioni meramente episodiche o di una mera ed eventuale aspettativa)» (40).
«Tanto l’art. 2043 c.c. quanto l’art. 2059 c.c.- si legge ancora nella sentenza n. 2988 del 1994 – ricomprendono nell’ambito dell’obbligazione risarcitoria -accanto al danno subito dal soggetto verso cui è stato diretto il fatto ingiusto- anche il danno che abbiano risentito, in modo ugualmente immediato e diretto, sotto forma di deminutio patrimonii o di danno morale, eventuali altri soggetti, per i rapporti (di natura familiare o parafamiliare) che li legano a quello direttamente e immediatamente leso».
È questa ancora oggi la posizione dominante anche nella giurisprudenza di merito e in quella di legittimità.
Si legge più specificamente in altra pronuncia che «agli effetti della legitimatio ad causam, del soggetto, convivente di fatto della vittima dell’azione omicidiale di un terzo, viene in considerazione non già il rapporto interno tra i conviventi, bensì l’aggressione che tale rapporto ha subito ad opera del terzo» conseguendone che «mentre è giuridicamente irrilevante che il rapporto interno non sia disciplinato dalla legge, l’aggressione ad opera del terzo legittima il convivente a costituirsi parte civile, essendo questi leso nel proprio diritto di libertà, nascente direttamente dalla costituzione, alla continuazione del rapporto, diritto assoluto e tutelabile erga omnes, senza, perciò, interferenze da parte dei terzi» (41).
Tuttavia – secondo tale tesi – non ogni convivenza, anche soltanto occasionale, può ritenersi sufficiente a fondare un’azione risarcitoria in quanto il danno patrimoniale risarcibile consiste nel venir meno degli incrementi patrimoniali che il convivente di fatto era indotto ad attendersi dal protrarsi nel tempo del rapporto e perciò intanto può essere risarcito, in quanto la convivenza abbia avuto un carattere di stabilità tale da far ragionevolmente ritenere che, ove non fosse intervenuta l’altrui azione omicidiale, la convivenza sarebbe continuata nel tempo (42). E ancora nello stesso senso, nel giudicare un caso in cui ha ritenuto ammissibile la costituzione di parte civile dei genitori conviventi della persona offesa in un caso di lesioni personali colpose, la Cassazione ha affermato che «in tema di costituzione di parte civile, la lesione di qualsiasi forma di convivenza, purché dotata di un minimo di stabilità tale da fondare una ragionevole aspettativa di un futuro apporto economico, rappresenta legittima causa petendi di un’azione risarcitoria proposta dinanzi al giudice penale competente per l’illecito che ha causato detta lesione» (43).
Il giudice, naturalmente, sarà chiamato a verificare il grado di stabilità e la serietà della convivenza, in modo da escludere risarcimenti in caso di situazioni di mera occasionalità, che non configurano certamente ipotesi di famiglia di fatto
Situazione analoga a quella del convivente more uxorio è quella dell’affidatario.
In proposito è stato affermato che «in tema di risarcimento del danno cagionato dal reato, gli affidatari di un minore rimasto vittima di un incidente stradale sono legittimati a costituirsi parte civile nel procedimento penale allorché il rapporto di affidamento, al momento del fatto, sia già consolidato e prolungato nel tempo, e si manifesti con caratteristiche di stabilità e tendenziale definitività in modo tale da rendere evidente la sussistenza di una relazione affettiva interpersonale fondata su una duratura comunanza di vita e di interessi, assimilabile nei fatti ad un vero e proprio rapporto familiare, nel quale il minore abbia ricevuto costante ed affettuosa assistenza da parte dell’adulto» (44).

10. LA TESI «APERTA ALL’EUROPA» DEL GIUDICE MONOCRATICO DI TERNI
La lettura costituzionalmente orientata dell’art. 649 c.p. proposta nella sentenza in commento muove da un’analisi della previsione di cui all’art. 29 Cost. che non può andare disgiunta secondo il Tribunale di Terni da quella di cui all’art. 2.
Il giudice umbro, infatti, si pone il problema che l’art. 29 comma 1 potrebbe costituire un ostacolo alla sua interpretazione laddove parla di matrimonio.
Tuttavia, si legge nella sentenza in commento «l’art. 29 Cost. non può leggersi senza l’art. 2 che prevede i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità».
Se la facoltà di astensione dal deporre dei prossimi congiunti, ed ora anche dei conviventi non può sospettarsi di incostituzionalità per violazione dell’art. 29 Cost. perché la risposta sarebbe sicuramente che la ratio è da rinvenire, non nell’art. 29, ma nell’art. 2 Cost., così deve ragionarsi secondo il Tribunale di Terni anche per la causa di non punibilità dell’art. 649 c.p
Conseguentemente una lettura costituzionalmente orientata non potrebbe non tener conto che la ratio dell’art. 649 c.p. deve rinvenirsi nella disposizione dell’art. 2, e non nella tradizionale e blindata considerazione nazionale della famiglia come fondata sul matrimonio, dell’art. 29 Cost.
Si tratta – per l’estensore della sentenza in commento – della stessa ratio dell’art.199 c.p. che prevede l’astensione dal testimoniare del coniuge.
È questo un punto centrale della pronuncia in commento.
Il giudice di Terni ricorda anche altri casi in cui in sede civile le ultime previsioni legislative equiparano a tutti gli effetti il convivente di fatto al coniuge, da quella che consente al convivente di chiedere l’amministratore di sostegno e l’interdizione e anche di essere egli stesso nominato amministratore di sostegno (l. n. 6 del 2004) o di essere tutelato dagli ordini di protezione (l. n. 154 del 2001). E, ancora, la previsione dell’art. 5 l. n. 40 del 2004, che prevede che possono accedere alla procreazione medicalmente assistita sia i conviventi che i coniugi, e lo statuto della Regione Toscana (art. 3 comma 6), che prevede il riconoscimento delle altre forme di convivenza e rispetto al quale la Corte costituzionale con la sentenza n. 372 del 2004 ha dichiarato inammissibile le questioni di legittimità sollevate.
Di fronte a questi elementi il giurista (ed il giudice prima del giurista) secondo il Tribunale di Terni «deve chiedersi se la lettura dell’art. 649, n. 1, c.p. sia ancora attuale o non deve iniziarsi a dare una lettura diversa costituzionalmente orientata, e, ancor più, una lettura orientata in sede di ordinamento europeo».
Ebbene, è tale punto d’approdo dell’elaborazione operata nella sentenza in commento, senza dubbio suggestiva nelle sue conclusioni, che non pare condivisibile.
L’estensore, infatti, richiama tutta una serie di casi in cui il legislatore è intervenuto specificamente ad ampliare il campo di operatività di questa o di quella norm
a, soprattutto in sede civile, prevedendone l’operatività anche per le unioni di fatto.
Tale possibilità, tuttavia, non è assolutamente in discussione. Ed è anzi opportuno che il legislatore intervenga in tutta una serie di ambiti in cui il riconoscimento di diritti e facoltà ai soli membri della famiglia fondata sul matrimonio appare oggi superato dall’evoluzione dei costumi. E ha anche ragione il Giudice di Terni laddove evidenzia che un intervento in tal senso del legislatore non porterebbe a problemi di costituzionalità delle norme eventualmente introdotte per equiparare quoad effectum la convivenza di fatto al rapporto di coniugio.
Ciò che invece non pare assolutamente condivisibile – soprattutto in sede penale – è che a tali conclusioni si possa pervenire in via interpretativa.
Quanto al richiamo alle fonti sovranazionali secondo il Tribunale di Terni l’argomentazione dell’equiparazione del convivente more uxorio al coniuge «si rafforza se si affronta una lettura della norma dell’art. 649 c.p. orientata ai principi e valori del diritto europeo, espressi dalla CEDU e dalla nuova costituzione europea». Viene ricordato nella sentenza in commento che per l’art. 6 del trattato sull’unione europea ormai i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’unione in quanto principi generali.
La norma della CEDU che viene in rilievo secondo il giudice monocratico di Terni è l’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) secondo cui «ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza».
Viene ricordato come «é noto che la CEDU, al contrario della nostra costituzione, quando parla di famiglia non si riferisce solo a quella fondata sul matrimonio, ma a qualsiasi nucleo familiare convivente» e se ne desume che «il diritto italiano non rispetterebbe la CEDU e in particolare l’art. 8 se punisse il convivente per un fatto non punibile per il coniuge».
Ma, come si diceva all’inizio, è lo stesso giudice umbro a ricordare come la Corte costituzionale abbia ben precisato che le norme della CEDU sono norme interposte per il giudizio di costituzionalità e non direttamente applicabili nel nostro ordinamento (45).

11. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE: LA CONDIVISIBILE OPZIONE DELLA CORTE COSTITUZIONALE
C’é un dato di sistema che pare in ogni caso insuperabile e contrastare con l’opzione interpretativa proposta nella sentenza in commento.
È quello per cui, senza ombra di dubbio, tanto quella prevista all’art. 384 c.p. per i delitti contro l’amministrazione della giustizia che quella in esame di cui all’art. 649 comma 1 c.p. hanno natura giuridica di cause speciali di non punibilità, in quanto tali aventi carattere eccezionale, il che ne preclude l’applicazione in via analogica.
Ciò in quanto – come è stato evidenziato in dottrina (46) – alla base della scelta di introdurle nel nostro ordinamento ci sono valutazioni di natura politico-criminale «legate alle caratteristiche specifiche della situazione presa in considerazione e perciò non estensibili ad altri casi».
E perciò pare ancora assolutamente condivisibile ciò che si legge nella già citata pronuncia della Cassazione n. 35967 del 2006 laddove si ricorda che «l’estensione delle cause di non punibilità, che costituiscono deroghe a norme penali generali, comporta una ponderazione tra interessi in conflitto che attiene in primo luogo alla discrezionalità del legislatore» e che nell’ambito a cui ci stiamo dedicando «una volta confrontati gli opposti interessi (tutela della efficacia della funzione giudiziaria penale e tutela di aspetti della vita familiare), non necessariamente la posizione del convivente deve essere coincidente con quella del coniuge, stanti i citati tratti differenziali quanto a stabilità del rapporto».
Una equiparazione forzata in sede interpretativa dell’art. 649 c.p. tra coniuge e convivente di fatto aprirebbe il problema della medesima equiparazione in tutti gli altri numerosi casi, in bonam ma anche in malam partem, nei quali si da rilievo a vincoli familiari ai fini della legge penale.
Va evidenziato che pare condivisibile in toto il tentativo di adeguare l’interpretazione della norma alla costituzione materiale ovvero – il che è lo stesso – applicare la norma dandone una lettura costituzionalmente orientata.
È giusto, dunque, fare riferimento ad un concetto di famiglia che oggi è ben diverso da quello del 1948.
Tuttavia, in ambito penalistico, ciè è possibile per quelle norme che si riferiscono al nucleo familiare convivente (e perciò, come visto, viene normalmente fatto per la norma in materia di maltrattamenti familiari, per quella che contempla l’ammissione al gratuito patrocinio e per quanto attiene al danno da fatto illecito).
Non pare possibile, invece, una opzione interpretativa di tal genere per quelle norme che, in maniera diretta o indiretta, facciano riferimento alla figura del coniuge, che è e rimane, a costituzione vigente, figura diversa da quella del convivente more uxorio.
Se il costume è mutato a tal punto che si vuole che tale figura abbia incidenza sulla norma incriminatrice in materia di delitti contro il patrimonio si tratta di una scelta che non può che essere di competenza del legislatore, cui l’interprete non si può sostituire.

NOTE
(1)
Cass., sez. V, 14 febbraio-16 giugno 1986, n. 5630, Dodero, in Ced Cass., n. 173142.
(2) Cass., sez. V, 8 giugno-26 settembre 2005, n. 34339, Bassino, in Ced Cass., n. 232253.
(3) C. cost. 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349.
(4) Cass. sez. VI, 22 gennaio-11 maggio 2004, n. 22398,, Esposito, in Cass. pen. 2005, 7, 8, 2231; in Ced Cass., n. 229676.
(5) Cass., sez. VI, 28 settembre-26 ottobre 2006, n. 35967, in Fam. e dir., 2007, 3, 275, con nota di PITTARO, Il convivente more uxorio, a differenza del coniuge, rimane punibile per il reato di favoreggiamento personale; in Riv. pen., 2007, 2, 156; in Ced Cass., n. 234862.
(6) Cass., sez. I, 11 maggio-18 giugno 2008, n. 24710, Sendane, in Ced Cass., n. 240596.
(7) Non è stato previsto il caso della moglie, ma la relativa eccezione d’illegittimità costituzionale è stata dichiarata irrilevante In quanto sollevata in un processo instaurato nei confronti di un imputato di sesso maschile (cfr. C. cost., sent. n. 139 del 1974, in Giust. pen., 1975, I, 39).
(8) LA CUTE, Prostituzione (dir. vig.), in Enc. dir., XXXVII, 1988, 472; PIOLETTI, Prostituzione, in Digesto (discipline penalistiche), X, 1995, 291.
(9) Cass., sez. III, 1 aprile-4 giugno 1968, n. 573, Godimo, in Ced Cass., n. 108168
(10) Cass., sez. III, 23 gennaio-6 maggio 1969, n. 96, Serra, in Ced Cass., n. 111324.
(11) Cass., sez. III, 7 dicembre 1982-8 febbraio 1983, n. 1260, Rimmaudo, in Ced Cass., n. 157383.
(12) Cass., sez. III, 11 febbraio-4 luglio 2000, n. 7734, Faraldi, in Ced Cass., n. 217176.
(13) Cass., sez. III, 11 ottobre-10 novembre 2005, n. 40841, Dei Menegatti, in Ced Cass., n. 232900.
(14) Così Cass., sez. III, 11 marzo-28 aprile 2003, n. 19644, Fama, in Ced Cass., n. 224289 n
el giudicare una fattispecie in cui il convivente era pienamente consapevole della provenienza del denaro per l’economia familiare in quanto accompagnava la donna sui luoghi in cui si prostituiva.
(15) Cass., sez. III, 27 febbraio-29 maggio 2007, n. 21089, Vella, in Ced Cass., n. 236738.
(16) Cass., sez. II, 28 marzo-8 giugno 1995, n. 6726, in Ced Cass., n. 201771, caso in cui, in applicazione del citato principio, la Corte di legittimità ha escluso che possano rifiutarsi di rendere testimonianza, e che debbano essere necessariamente informati di tale facoltà i familiari di ciascun convivente nel procedimento instaurato nei confronti dell’altro.
(17) Cass., sez. VI, 23 marzo-28 luglio 1995, n. 8687, in Ced Cass., n. 202604.
(18) In tal senso Cass., sez. II, 26 maggio 1966, Palombo, in Ced Cass., n. 101563
(19) Cfr. Cass. sent. n. 4084 del 1980, in Ced Cass., n. 144802; n. 1691 del 1986, in Ced Cass., n. 171979; n. 7073 del 1990, in Ced Cass., n. 184342; n. 1067 del 1991, in Ced Cass., n. 186276; n. 12545 del 2000, in Ced Cass., n. 218173.
(20) Così Cass., sez. III, 8 novembre-5 dicembre 2005, n. 44262, Sciacchitano, in Ced Cass., n. 232904.
(21) Cass., sez. VI, 24 gennaio-31 maggio 2007, n. 21329, Gatto, in Cass. pen., 2008, 855, 2858, con nota di BELTRANI, La (mutevole) rilevanza della famiglia di fatto nel diritto penale, in Ced Cass., n. 236757.
(22) Così Cass., sez. VI, 29 gennaio-22 maggio 2008, n. 20647, Battiloro, in Ced Cass., n. 239726; in Guida dir., 2008, 34, 93, con nota di VIOLA, Discutibile applicare la sanzione a chi non assume impegni formali.
(23) Cass., sez. I, 22 febbraio -18 maggio 1988, n. 6037, Ranco, in Giust. pen., 1989, 4, 2, 207; in Ced Cass., n. 178415.
(24) Cass., sez. I, 9 gennaio-7 marzo 1985, n. 53, in Ced Cass., n. 168181; conf. Cass. sez. I 19-29 dicembre 2006, Stasi, in Ced Cass., n. 235339
(25) Cass., sez. I, 15 febbraio-12 aprile 1990, n. 5378, Iarossi, in Ced Cass., n. 184023.
(26) Cass., sez. IV, 17 febbraio-20 maggio 2005, n. 19349, Capri, in Ced Cass., n. 231357; conf. Cass., sez. IV, sent. n. 13265 del 2004.
(27) Cass., sez. IV, 28 gennaio-18 marzo 2004, n. 13265, in Ced Cass., n. 228035.
(28) Così Cass., sez. IV, 13 gennaio-26 aprile 2006, n. 14442, De Marco, in Ced Cass., n. 234027 che ha ritenuto corretto e congruamente motivato il provvedimento che aveva respinta l’istanza di ammissione al patrocinio, per superamento dei limiti di reddito, in una vicenda in cui l’istante, pur essendo divorziato, era risultato ancora convivente con la moglie, perché tale risultava all’anagrafe e perché nell’abitazione comune risultava detenuto agli arresti domiciliari.
(29) Così sin già da Cass. sez. VI, 31 ottobre 1997-11 giugno 1998, n. 4264, Scaburri, in Ced Cass., n. 211722.
(30) Cass., sez. IV, 26 ottobre 2005-5 gennaio 2006, n. 109, Curatolo, in D&G, 2005, 5, 38 con nota di DOSI, Il gratuito patrocinio non fa distinzioni fra coppie sposate e famiglie di fatto; in Ced Cass., n. 232787.
(31) PEZZELLA, Il danno da uccisione, in I danni risarcibili nella responsabilità civile, IV, I singoli danni, Torino, 2005, cap. I, 1-56.
(32) Cass. 19 maggio 1911, in Foro it., 1911, 798.
(33) Così Cass., sez. IV, 21 settembre 1981, De Cherchi, in Riv. pen,, 1982, 240 secondo cui «né ha rilievo la natura, patrimoniale o non patrimoniale, di tal danno, perché, come è stato sostenuto da autorevole dottrina e, recentemente, è stato affermato da questa Corte suprema (Cass., sez. III, 21 maggio 1976, n. 1345), il criterio discretivo per la risarcibilità o meno, anche del solo danno non patrimoniale, va individuato pur sempre nella ingiustizia di tal danno; sì che legittimati all’azione sono solo i prossimi congiunti, legati alla vittima da un vincolo non meramente affettivo, ma affettivo-giuridico».
(34) Cass., sez. I, 7 luglio-8 ottobre 1992, n. 9708, Giacometti, in Giur. it., 1993, 10, 2, 659; in Ced Cass., n. 191885.
(35) PEZZELLA, op. cit., 22.
(36) Ass. Genova 19 novembre 1984, in Resp. civ. prev., 1985, 97.
(37) Si veda ad esempio Cass. civ., sez. I, 8 febbraio 1977, n. 566, in Giur. it., 1977, I, 830.
(38) Ass. Genova 19 novembre 1984, in Resp. civ. prev., 1985, 97.
(39) Cass., sez. III, 1 agosto 1987, n. 6672, in Ced Cass., n. 454890.
(40) Cass. civ. 28 marzo 1994, n. 2988, in Giust. civ., 1994, I, 1849.
(41) Cass., sez. I, 4 febbraio-31 marzo 1994, n. 3790, Di Felice, in Riv. pen., 1995, 7, 921, in Ced Cass., n. 199108.
(42) Così Cass., sez. I, sent. n. 3790 del 1994, sopra cit.
(43) Cass., sez. IV, 8 luglio-4 ottobre 2002, n. 33305, Rocchetti, in Arch. giur. circ., 2003, 1; in Ced Cass., n. 222366.
(44) Cass., sez. IV, 27 giugno-27 settembre 2001, n. 35135, Rigamonti, in Ced Cass., n. 219877.
(45) C. cost. 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349.
(46) FIANDACA – MUSCO, Diritto penale, Parte generale, 5ª ed., Bologna, 2005, 110.

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