La lettura in parallelo delle sentenze n. 138/2010 e n. 245/2011 della Corte Costituzionale: una breve riflessione
di Michele Di Bari*
La lettura della sentenza n.245/2011 se da un lato può considerarsi un intervento di alto valore civile prima ancora che giuridico, all’interno del quale viene inquadrato e difeso un diritto fondamentale inalienabile quale quello alla libera scelta di contrarre matrimonio senza distinguere tra cittadini ed immigrati, ma utilizzando il parametro dell’universalità, dall’altro sembra presentare forti contraddizioni con il ragionamento espresso solamente un anno prima dalla Consulta nella sentenza n.138/2010. Per poter chiarire meglio i punti di contraddittorietà esistenti tra le due sentenze è necessario preliminarmente richiamare brevemente quanto la Corte Costituzionale ha sostenuto nel 2010 e successivamente effettuare un raffronto con le posizioni espresse nella sentenza n.245/2011.
Come noto, la sentenza n.138/2010 è originata dalle richieste di due differenti giudici a quo, quello di Venezia e quello di Trento, di verificare se l’attuale restrizione avverso le coppie dello stesso di contrarre matrimonio prevista dall’ordinamento italiano possa ancora ritenersi legittima alla luce dell’evoluzione sociale in materia di libertà matrimoniale e diritto al riconoscimento. In particolare, i giudici remittenti hanno fatto riferimento agli artt. 2-3-29 della Costituzione come parametri guida al fine di interrogare la Consulta sulla normativa civilistica impedente il riconoscimento formale delle coppie same-sex.
Nello specifico il giudice ordinario nelle istanze di remissione ha fatto esplicito riferimento anche a fonti di natura internazionale come la CEDU (Artt.8-12) e la Carta dei Diritti dell’Unione Europea (Art.9) al fine di inquadrare la questione in un contesto di piu ampio respiro, capace di enfatizzare come i mutamenti sociali degli ultimi anni – non solo a livello nazionale ma anche internazionale – potessero indurre un giudice a non ritenere più il diniego alle coppie omosessuali di contrarre matrimonio come un elemento di ovvietà desumibile dalla lettura delle disposizioni del codice civile.
Il Giudice Costituzionale investito della questione ha avuto dunque modo di affrontare il tema del diritto inerente il riconoscimento per le coppie same-sex attraverso una serie di speculazioni giurisprudenziali capaci di chiarire se, ed in quale misura, tale diritto esiste per gli omosessuali, ed in quale misura il legislatore ha facoltà di porre delle limitazioni in relazione alla possibilità di contrarre matrimonio.
Ebbene, la Consulta nella sentenza n.138/2010 chiarisce in via preliminare che in relazione all’art.2 Cost., le coppie dello stesso sesso sono da considerarsi a tutti gli effetti formazioni sociali cui la Costituzione garantisce tutela. Nello specifico il Giudice delle Leggi rileva che ‘per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri (considerato in diritto 8)’.
Allo stesso tempo però, la Corte ricomprime quanto stabilito all’interno della “sfera di volontarietà legislativa”. Ovvero, secondo la Corte, sebbene ci si trovi di fronte ad un diritto fondamentale costituzionalmente garantito, spetterebbe al legislatore, in via esclusiva, ricercare/formulare le soluzioni legislative più congrue al fine di ottemperare a quanto costituzionalmente garantito. In altre parole, il dirtto esiste e va tutelato ex ante, le modalità di tutela possono essere definite ex post. Si tratta, a parere di scrive, di una scelta di natura politico-giuridica volta a non scontrarsi con un legislativo riluttante rispetto alla questione. Come gia sottolineato da altri in dottrina, la scelta dellla Corte Costituzionale è compromissoria, non autoritativa.
D’altronde, la stessa Corte argomenta in modo duale la presenza di un diritto al riconoscimento delle coppie dello stesso sesso in relazione alle disposizioni costituzionali poste alla sua attenzione. Se, alla luce dell’art.2 Cost. un diritto esiste, alla luce dell’art.29 Cost. tale diritto non è riconducibile all’interno di un diritto fondamentale al matrimonio che, a parere della Corte, rimane riservato alle coppie eterosessuali. A questa conclusione la Corte arriva osservando che se da un lato il concetto di matrimonio non può dirsi cristallizato nel tempo (considerato in diritto 9) dall’altro si devono considerare principalmente due aspetti: (1) non si può che constatare che all’epoca della sua scrittura, l’art.29 Cost. non poteva considerarsi comprensivo anche delle coppie dello stesso sesso in quanto tale istanza sociale non era considerata nell’allora dibattito politico; (2) la funzione dell’art.29 Cost. non si esaurirebbe nella tutela degli individui che formano una famiglia, ma andrebbe a coprire anche le potenziali risultanze dell‟unione tra due individui di sesso opposto, tra cui la prole eventuale.
In tal modo, il Giudice Costituzionale implicitamente osserva come i due concetti “matrimonio” e “famiglia” non possano considerarsi coincidenti, e la stuttura del primo non può subire un’evoluzione di tipo giurisprudenziale di natura creativa senza intaccare il nucleo essenziale del suo significato. Si tratterebbe di un’invasione di campo non ammessa dalla Costituzione, ovvero l’apertura dell’istituto matrimoniale agli omosessuali imporrebbe una riscrittura dell’art.29 Cost. da parte del legislatore.
Ancorché discutibile nel merito, questa posizione si giustificherebbe, e la Corte esplicitamente ne fa menzione, alla luce delle differenti esperienze estere. Ovvero, sarebbe del tutto arbitrario per il Giudice delle Leggi scegliere di aprire l’istituto matrimoniale agli omosessuali, giacché le possibilità di riconoscimento possono, ma non devono, passare attraverso l’istituto matrimoniale. La Corte, non erroneamente, sottolinea come sia impossibile rinvenire un jus commune europeo in materia di coppie dello stesso sesso. Per contro, ciò che la Corte non chiarisce in modo esaustivo è la relazione tra l’art.3 Cost. e l’art.29 Cost. se si considera quanto detto in relazione all’art.2 Cost.
In altre parole, se l’assunto secondo il quale in relazione all’art.2 Cost. esiste un diritto fondamentale al riconoscimento ed alla tutela per le coppie omossesuali viene letto alla luce dell’art.3 Cost., si dovrebbe desumere che laddove non sia previsto dall’ordinamento nessun effettivo strumento legislativo di riconoscimento, persisterebbe un’illegittima ed irragi
onevole differenziazione tra eterosessuali ed omosessuali in materia di vita familiare. Posto che l’ordinamento italiano non prevede alcun istituto “altro” rispetto al matrimonio, precludere l’accesso al matrimonio per gli omosessuali significa de facto stabilire un precedente secondo il quale esisterebbero dei diritti inviolabili a disposizione del legislatore. Tale posizione pare in netta controtendenza rispetto alla dottrina contemporanea inerente i diritti fondamentali ed il ruolo delle Corti Costituzionali in materia di protezione dei diritti costituzionalmente garantiti.
Certamente la Corte non ha potuto o voluto fornire una risposta netta sulla questione, lasciando ampio spazio al legislatore al fine di favorire un’evoluzione progressiva dell’ordinamento. Come sottolineato da alcuni, la Corte non ha esclusivamente censurato le istanze di riconoscimento che le sono state sottoposte, ma ha semmai preferito porsi in una posizione di sostanziale terzietà rispetto alla quale le sarà più facile muoversi qualora una normativa inerente le coppie non sposate presenti delle differenziazioni irragionaveli rispetto all’istituto matrimoniale, ovvero riservandosi di decidere caso per caso se e dove una discriminazione sia o meno ammissibile alla luce delle garanzie costituzionalmente garantite.
Venendo ora all’analisi della sentenza n.245/2011, essa origina dall’ordinanza di remissione da parte del Tribunale di Catania a seguito del diniego da parte dell’ufficiale di stato civile di accordare la possibilità a due individui, un’italiana ed un marocchino irregolarmente soggiornante nel nostro Paese, di contrarre matrimonio. La Corte Costituzionale, investita della questione, ha avuto modo di stabilire in modo preciso la sua posizione in relazione alla libertà di contrarre matrimonio, quale principio fondamentale, ed in relazione al valore assoluto delle garanzie costituzionali scaturenti dall’art.2 Cost.
Nella fattispecie all’esame della Corte, i due individui una volta presentata la richiesta di matrimonio si erano visti rifiutare la domanda in ragione del novellato art.116 cod. civ. il quale, a seguito della legge n.94/2009, disponeva quale presupposto essenziale per il perfezionamento della domanda di matrimonio la regolarità del permesso di soggiorno del cittadino straniero. Le motivazioni con cui il giudice a quo ha stabilito la non manifesta infondatezza della questione ed ha sottoposto alla Corte la questione di legittimità costituzionale della suddetta normativa concernono la possibilità per il legislatore di limitare, o addirittura proibire l‟esercizio del diritto a contrarre liberamente matrimonio in ragione di un altro interesse statale.
Il Tribunale di Catania, ha sottolineato come il diritto a contrarre liberamente matrimonio non è solo costituzionalmente garantito ma è anche uniformemente sancito all’interno delle fonti internazionali cui il nostro ordinamento è vincolato in virtù dell’adesione alla CEDU, all’Unione Europea (v. Carta Dei Diritti Fondamentali della UE, ora vincolante a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona), alle Nazioni Unite la cui Dichiarazione Universale esplicitamente menziona tale principio.
L’interrogativo cui la Corte Costituzionale ha dovuto rispondere concerneva dunque la costituzionalità di una scelta normativa che vede l’esercizio di un diritto fondamentale estremamente affievolito in ragione della necessità di salvaguardare l’ordine pubblico in materia migratoria, come successivamente argomentato dall’Avvocatura dello Stato. L’istanza di remissione del giudice catanese ha fatto perno sul concetto di ragionevolezza, cui la Suprema Corte ha fatto riferimento numerose volte nella sua elaborazione giurisprudenziale in relazione all’art.3 Cost. al fine di valutare la congruità della normativa oggetto del giudizio di costituzionalità all’interno dell’operazione di bilanciamento tra interesse statale perseguito e pratiche discriminatorie o di differenziazione.
Il principio di uguaglianza, seppur non direttamente menzionato nel ragionamento della Corte è in effetti dirimente nella questione posta di fronte al Giudice delle Leggi, essendo ogni individuo egualmente tutelato nei suoi diritti inviolabili. Ed è esattamente in questo quadro che la Corte Costituzionale ha ricostruito nel dispositivo della sentenza il ragionamento che la porta a dichiarare incostituzionale la nuova formulazione dell‟art. 116 co.1 del codice civile. La Consulta ha infatti spiegato ‘che i diritti inviolabili, di cui all’art. 2 Cost., spettano «ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani», di talché la «condizione giuridica dello straniero non deve essere pertanto considerata – per quanto riguarda la tutela di tali diritti – come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi»’ (considerato in diritto 3.1).
Pertanto, la Consulta non solo ha ribadito che il diritto a contrarre liberamente matrimonio (art.29 Cost.) è un diritto inviolabile che in ragione dell’art.2 Cost. èuniversalmente garantito, ma è andata oltre. Essa ci ha informato che nonostante allo Stato sia comunque riservata una certa discrezionalità nella definizione delle strategie per il mantenimento dell’ordine pubblico, tali strategie per poter giustificare la lesione di un diritto fondamentale universale devono perseguire un fine costituzionale di pari portata (considerato in diritto 3.1). Tale prerequisito non è stato rinvenuto dalla Suprema Corte che ha coerentemente provveduto a dichiarare la normativa oggetto di scrutinio incostituzionale.
La lettura in parallelo delle sentenze n.138/2010 e n.245/2011 non può non far riflettere sulla portata del dispositivo del 2011 e su una certa contraddittorietà rispetto a quanto stabilito con la precedente decisione nel 2010. Quello che la Corte nella sentenza n.245/2011 sottolinea è l’inviolabilità di un diritto, quello a contrarre liberamente matrimonio, che viene riconosciuto ad ognuno in quanto individuo (art.2 Cost.). Questo elemento, ovvero l’universalità della garanzia offerta a livello costituzionale, sembra non potersi desumere dalla lettura della sentenza n.138/2010, nonostante l’oggetto della discussione fosse pressoché il medesimo, ovvero se questo diritto si qualificasse o meno come diritto inviolabile egualmente esercitabile senza distinzioni di sorta.
Invero, se il parametro cui fare riferimento è l’appartenenza, per così dire, al genere umano, risulta difficile capire il motivo per cui tale parametro debba poi essere ricondotto all’interno di una sub-categoria quale quella dell’orientamento sessuale, quando l’istanza di riconoscimento venga promossa dalle coppie samesex. Ovvero, non è facilmente comprensibile perché si debba passare dall’universale al particolare nel caso in cui sia l’orientamento sessuale l’elemento di differenziazione.
Quale alto valore costituzionale viene perseguito nella restrizione dell’inviolabile diritto a contrarre liberame
nte matrimonio per le persone omosessuali? Questa è la domanda a cui il Giudice che ha elaborato la sentenza n.138/2010 non ha risposto. In quel dispositivo, la Consulta non si è soffermata, come nella sentenza n.245/2011 sull’importanza del diritto inviolabile a contrarre liberamente matrimonio, ma sul significato di matrimonio. In altre parole, il Giudice delle Leggi non sembra aver tenuto in debita considerazione, come ha peraltro fatto nel caso originato dal tribunale di Catania, il presupposto principale della questione, ossia il diritto a vedersi riconosciuta una tutela costituzionale che l’ordinamento garantisce ad ogni individuo.
Cosa ci si sarebbe potuti aspettare se la Corte Costituzionale avesse utilizzato la stessa logica nel 2010? Probabilmente sarebbe stato molto più difficile argomentare in favore della tesi che vede nel Parlamento l’unico organo deputato a decidere, se decidere, come decidere sulla questione. In realtà, a parere di chi scrive, se la discussione non si fosse soffermata sulla semantica del concetto, ovvero alla puntualizzazione di cosa sia o non sia matrimonio, ma si fosse invece orientata verso un ragionamento che tenesse in considerazione il concetto di universalità nel godimento dei diritti fondamentali, probabilmente anche la scelta di aprire l’istituto matrimoniale alle coppie dello stesso sesso non sarebbe risultata poi così politicamente scomoda da parte della Consulta.
È bene chiarire che certamente il matrimonio non è “la soluzione”. Esso rappresenta solo uno dei possibili istituti giuridici per il riconoscimento delle coppie, siano esse eterosessuali od omosessuali. In questo il Giudice del 2010 ha giustamente sottolineato la moltitudine di soluzioni legislative cui un Parlamento attento alle istanze sociali poteva fare riferimento. Rimane però sul tavolo la questione principale. L’Italia è in una situazione in cui la tutela per le coppie dello stesso sesso non solo non esiste, ma non è nemmeno avvertita dalla classe politica contemporanea come un’istanza sociale da doversi velocemente risolvere.
In questo contesto, perché il contesto rileva non poco quando si parla di valori fondamentali, come si potrebbe ancora sostenere, dopo la sentenza n.245/2011, che la Corte non avrebbe titolo per intervenire, fosse anche utilizzando una certa creatività, in una situazione di palese violazione di un diritto fondamentale universalmente garantito? Probabilmente la sentenza n.245/2011 si configure come “un’apertura” verso l’ottenimento della piena parità tra coppie eterosessuali ed omosessuali ancora più grande di quella rinvenibile nella più ottimistica delle interpretazioni dottrinali date alla sentenza 138/2010.
* Dottorando presso la School of International Studies, Università di Trento. Cultore della materia per i corsi di Eguaglianza e Garanzie Costituzionali; Disciplina dei Diritti Umani nel Diritto Costituzionale Italiano e Comparato; Diritto Costituzionale Italiano e Comparato, presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova.
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