PARERE SUL PROGETTO DI LEGGE SULL’AGGRAVANTE INERENTE L’ORIENTAMENTO SESSUALE

Introduzione

Il presente parere ha lo scopo di analizzare i contenuti, i limiti e le possibili modifiche migliorative al testo sull’introduzione di una circostanza aggravante, inerente l’orientamento sessuale, adottato come testo base, in data 2 ottobre 2009 dalla seconda Commissione permanente Giustizia della Camera dei Deputati.

Il parere esclusivamente tecnico non ha alcun obiettivo di carattere valutativo in ordine alla opportunità dell’azione politica che sta accompagnando il cammino legislativo del progetto di legge.

Sotto tale profilo, ci limitiamo a rimarcare l’assenza di norme che promuovano l’informazione e la sensibilizzazione dei cittadini su cosa siano e come si debbano combattere omofobia e transfobia. Infatti, non può che esser bassa l’efficacia deterrente di un intervento che adotti una logica esclusivamente punitiva, priva cioè della strategia di prevenzione che solo la diffusione di una cultura del rispetto delle persone gay, lesbiche e trans può garantire.

Per favorire una maggiore comprensibilità del testo del presente parere, in considerazione del suo contenuto tecnico, si è scelto un linguaggio che sia il più possibile comprensibile ai non giuristi, articolando i vari passaggi delle riflessioni in forma di domande.

È meglio prevedere un’aggravante o un reato autonomo di omofobia?

Come è noto, a seguito degli episodi di omofobia che, in misura anche superiore al consueto, hanno funestato il nostro Paese negli ultimi mesi, è diventato ineludibile affrontare un problema che da anni le Associazioni a tutela delle persone LGBT denunciano. L’omofobia non è un fenomeno nuovo, ma l’eco mediatica di quanto accaduto di recente ha destato finalmente l’attenzione delle istituzioni.

Occorre subito rimarcare che gli episodi verificatisi hanno avuto come protagoniste persone gay o lesbiche, ma anche eterosessuali, che hanno solidarizzato con i loro amici gay o lesbiche. Accanto però agli episodi in considerazione, molti altri sono stati commessi ai danni di persone transessuali, di cui negli ultimi mesi purtroppo non si parla affatto.

I fatti accaduti finora si caratterizzano, in maniera molto schematica, in due sensi:

  • a) alcuni sono delitti già puniti dal codice penale, ma si connotano per un particolare accanimento nei confronti delle persone lesbiche, gay e transessuali.
  • b) altri sono comportamenti irrilevanti ai sensi delle norme penali attualmente vigenti, ma sono comunque espressione di un atteggiamento omofobico o transfobico.

Con la proposta di legge in considerazione, si intenderebbero colpire  soltanto i comportamenti di cui alla lettera a), mentre rimangono del tutto privi di sanzione i comportamenti di cui alla lettera b).

In altre parole, si potranno continuare ad affiggere manifesti come quello trovato a  Roma, che invitava a mettere i gay nel Colosseo con i leoni.

L’omofobia viene presa in considerazione solo come circostanza che aggrava una diversa fattispecie penale già esistente, mentre non è affatto presa in considerazione in sé e per sé. A questo secondo fine occorrerebbe una fattispecie autonoma di reato, ovvero l’estensione della Legge Mancino.

Quali sono i problemi dell’estensione della Legge Mancino alla discriminazione fondata sull’omofobia?

Il Prof. Ronco nella sua audizione dinanzi alla Commissione  Giustizia della Camera, nel corso dell’indagine conoscitiva in materia, il 14 gennaio 2009 ha sostenuto che l’estensione della Legge Mancino condurrebbe alla condanna tanto della mamma che suggerisse alla figlia di non sposare un bisessuale, quanto del padre che decidesse di non affittare una sua casa al figlio che volesse andare a vivere nell’immobile con il proprio compagno.

È evidente che in una normale dinamica processuale queste ipotesi di scuola non potranno mai verificarsi. E ciò per un motivo molto semplice dal punto di vista tecnico. La legge Mancino si basa su una nozione di discriminazione il cui significato si può trarre sia dalla Dichiarazione europea dei diritti dell’uomo, sia dalla Carta di Nizza, sia dalla Convenzione internazionale sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966, sia dall’articolo 43, comma 1 del decreto legislativo n. 286 del 1988, successivamente meglio puntualizzata nella direttiva n. 43 del 2000, recepita in Italia con il decreto legislativo n. 215 del 2003, nonché nella direttiva n. 78 del 2000, recepita con il decreto legislativo del n. 216 del 2003, che fa menzione anche dell’orientamento sessuale.

Il bene giuridico tutelato è quindi ben individuato: ossia la tutela della persona contro ogni forma di discriminazione. In base al principio dell’offensività, che deve caratterizzare la condotta penalmente rilevante e che vincola il Giudice nell’interpretare e applicare la legge penale, ai sensi dell’art. 49, comma 2 del codice penale, se si verificassero le ipotesi richiamate, le stesse ricadrebbero nell’ambito dei reati impossibili, giacché la condotta non sarebbe idonea a ledere o a porre in pericolo il bene giuridico protetto.

Inoltre, la fattispecie descritta dalla legge Mancino è molto chiara e precisa, individuando condotte che vanno al di là della semplice manifestazione di un’opinione. Infatti, essa punisce l’istigazione a commettere una discriminazione o una violenza, non le opinioni, quand’anche esse esprimano un pregiudizio. La differenza tra un mera opinione e una reale discriminazione dipenderà ovviamente dalle condizioni di tempo e luogo nel corso delle quali si manifesterà il messaggio, dalle modalità di estrinsecazione del pensiero, da condotte precedenti dell’autore, e così via. Attraverso il complesso di queste circostanze si potrà verificare se il fatto si possa ritenere realmente offensivo del bene giuridico protetto.

Chi protegge il testo della proposta di legge nella formulazione adottata dalla Commissione giustizia della Camera dei Deputati per la futura trasformazione in legge?

Il testo per come è concepito contiene una lacuna, perché pur citando espressamente l’orientamento sessuale, non cita l’identità di genere.

Ciò è dovuto alla convinzione espressa più e più volte, sia dall’attuale Presidente della Commissione Giustizia nella scorsa legislatura, sia dagli “esperti” sentiti in Commissione durante l’indagine conoscitiva, che non ci sarebbe una definizione di identità di genere scientificamente ineccepibile. La motivazione è pretestuosa alla luce dei numerosissimi scritti in materia, che una ricognizione anche solo sommaria della letteratura socio-psicologica avrebbe consentito di reperire.

Né tale silenzio può essere giustificato dal fatto che nella legislazione vigente non si rinvenga mai l’espressione identità di genere. Fino al 2003, nel nostro ordi
namento non v’era nemmeno una menzione legislativa di orientamento sessuale, ma questo non ha impedito la sua introduzione nella normativa a tutela delle discriminazioni sul luogo del lavoro (D.Lgs. 216/2003).

Non appare esaustivo in tal senso il riferimento alla “discriminazione sessuale” che per costante interpretazione delle norme vigenti si riferisce alle discriminazioni di genere uomo-donna. Culturalmente, peraltro, tale distinzione ribadisce l’esistenza di due sessi biologici e di uno psicologico, cioè l’orientamento sessuale, negando così la rilevanza giuridica del transgenderismo e del transessualismo.

Il diverso trattamento così riservato alle persone omosessuali rispetto alle persone transessuali appare sospetto sotto il profilo del rispetto del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione Italiana.

Pur nella consapevolezza della correttezza semantica e della necessità giuridica di reintrodurre nel testo della proposta di legge l’espressione ‘identità di genere’, potrebbe essere valutata l’utilizzabilità di un’espressione alternativa che possa consentire l’operatività dell’aggravante nei casi di reati motivati da transfobia. Tale espressione potrebbe essere ‘identità sessuale’ la cui definizione andrebbe inserita in un secondo comma dell’art. 61 del codice penale, ad esempio come nell’ipotesi seguente:

«art. 61, 2° co. C.p.: Per identità sessuale si intende la manifestazione della personalità individuale attraverso comportamenti o pratiche che possono non corrispondere al genere biologico della persona offesa dal reato.».

In quali casi è applicabile la legge?

L’aggravante si applicherà ai “delitti non colposi”, quindi caratterizzati dalla specifica volontà di commettere l’azione e di colpire le persone lesbiche e gay, ma ciò escluderà irragionevolmente altre categorie di reato (ad es. i reati aggravati dall’evento). Si pensi ad una rissa suscitata da odio omofobico in cui taluno muoia a causa della rissa, o immediatamente dopo o in conseguenza di essa.

Il testo individua con precisione i beni giuridici protetti: ossia la vita e l’incolumità individuale, la personalità individuale, la libertà personale e la libertà morale. Dall’elenco delle fattispecie considerate non si fa alcuna menzione dei delitti contro l’onore, quali sono l’ingiuria e la diffamazione.

Pertanto, si potrà continuare ad apostrofare nei modi peggiori un gay o una lesbica senza che questo provochi l’applicazione di una pena maggiore rispetto alla stessa condotta non connotata da omofobia. Sotto il profilo culturale si tratta di una grave svista, perché l’uso di un linguaggio non rispettoso induce anche ragionamenti e comportamenti non rispettosi. Inoltre, è noto che l’uso del linguaggio sia la matrice prima della creazione degli stereotipi da cui nascono i pregiudizi e le discriminazioni.

Inoltre, non é chiara la ratio per cui una circostanza aggravante comune dovrebbe elencare le fattispecie o categorie di reati ai quali andrebbe applicata, specificando la loro natura non colposa. Si sarebbero, invece, potuti indicare in via assolutamente generica “i delitti contro la persona”.

Dall’ambito di applicazione oggettivo della legge, inoltre, rimangono completamente esclusi i reati contro il patrimonio. Come emerge dal Report delle aggressioni omo-transfobiche redatto annualmente dall’Associazione Arcigay, i reati con cui vengono colpite le persone LGBT non attengono soltanto ai reati contro la persona. Numerosi, ad esempio, sono stati i casi di estorsioni ai danni soprattutto di quei gay e quelle lesbiche che non avendo una visibilità come tali, venivano ricattati da persone che erano a conoscenza del loro orientamento sessuale, sotto la minaccia di renderlo pubblico.

Identiche considerazioni valgono per le persone transessuali che però, come detto, non sono mai considerate dal testo in esame.

L’aggravante così come viene prevista rappresenta un mezzo efficace per la punizione dei delitti a sfondo omofobico?

Posto che l’omofobia per sé considerata non viene affatto punita dal presente progetto di legge, ma viene presa in considerazione solo in occasione della commissione di un reato, l’uso dell’aggravante così come attualmente previsto non sembra rappresentare un meccanismo efficace né per la deterrenza né per la punizione di atti omofobici.

Nella determinazione della pena il giudice tiene in considerazione tutte le circostanze del caso. Alcune sono previste per ridurre la pena da infliggere al reo (attenuanti), altre tendono invece ad aumentarla (aggravanti), ovviamente entro i limiti massimo e minimo di pena previsti per quel certo reato. A meno che non sia escluso espressamente per legge, le attenuanti e le aggravanti tendono a bilanciarsi e le attenuanti a prevalere sulle aggravanti. Quindi, di fronte alla presenza di circostanze attenuanti potrebbe ben darsi che l’aggravante dell’omofobia non abbia alcuna rilevanza in sede di determinazione dell’ammontare della pena.

A questo si potrebbe ovviare prevedendo all’art. 69 del codice penale, rubricato “concorso di circostanze aggravanti e attenuanti” che, nel caso di applicazione dell’aggravante di cui al progetto di legge, sia escluso il bilanciamento con le circostanze attenuanti e/o una prevalenza di queste ultime sull’aggravante stessa.

Il testo per come è scritto genererà difficoltà applicative?

Del tutto problematica ai fini applicativi appare l’espressione “per finalità inerenti all’orientamento o alla discriminazione sessuale della persona offesa dal reato” che dovrebbe caratterizzare la condotta criminosa.

Il riferimento corretto dovrebbe essere ai “motivi” e non alle “finalità”, come già prevede lo stesso articolo 61, al numero 1) con riferimento all’aggravante dei motivi abietti o futili, oppure come si rinviene nella Legge Mancino. Infatti, se si richiede l’esistenza di una “finalità”, il giudice dovrà accertare, oltre all’esistenza del fatto tipico e degli indici di colpevolezza, anche l’ulteriore scopo perseguito con la condotta, cosa spesso non agevole, soprattutto nei delitti a dolo generico (questa aggravante, infatti, richiama un’intenzionalità a dolo specifico, cioè il fatto di agire per voler proprio un determinato scopo, e senza la prova di essa il maggior disvalore dell’azione non sarebbe accertato).

Con la parola “motivo”, invece, s’intende la molla, l’impulso, l’istinto che spinge ad agire, il cui accertamento è di gran lunga più agevole e ricorrente nella gran parte dei casi. È questa la strada prescelta nella legge Mancino per esempio. Se nella proposta di legge si facesse riferimento al motivo, il dolo della fattispecie di reato sarebbe generico anziché specifico, e quindi sarebbe di più facile accertamento da parte del giudicante. Con la presenza di un dolo s
pecifico, questa aggravante risulterebbe essere completamente inefficace nella maggior parte dei casi e pertanto inapplicabile.

Del resto, le circostanze (aggravanti o attenuanti) risultano elementi accidentali alla condotta dell’agente (basta vedere tutto l’elenco di cui all’art. 61 c.p.), non alle sue ‘finalità’.

Sarà sempre possibile punire gli autori di atti omofobici?

Tra i reati aggravati dall’omofobia in base all’attuale proposta di legge ci sono molti reati perseguibili soltanto a querela di parte. Ciò vuol dire che se la persona offesa dal reato decide di non denunciare il fatto, pur essendo lo stesso di pubblico dominio non si potrà punirne l’autore.

Si ricorderà il recente caso di un ragazzo che era stato aggredito fisicamente e verbalmente dal padre dopo il suo coming out. Dopo l’intervento della polizia, la persona offesa dal reato – non si sa se spontaneamente o sotto la pressione dei famigliari – ha deciso di non sporgere querela. Tanti di questi casi rimangono pertanto impuniti, soprattutto in ambito famigliare, frequentemente in ragione della vergogna di rendere pubblica o aumentare la notorietà della propria omosessualità o perché a perpetrare questi reati sono spesso persone vicine alle vittime, o perché queste ultime sono spesso soggette a pressioni di gruppo, in un clima che tende a minimizzare o persino giustificare i reati a danni di persone che non rispettano gli stereotipi di genere e orientamento sessuale.

A dimostrazione di ciò, si ricordi che dal 2003 ad oggi, da quando cioè è stato introdotto per legge il divieto di discriminazione fondata sull’orientamento sessuale nei luoghi di lavoro, non è ancora dato di conoscere alcuna sentenza di condanna, per mancanza di azioni da parte delle persone discriminate.

Alla luce dell’attuale proposta sarebbe opportuno, per una maggiore protezione dei minori di 14 anni e degli incapaci per ragioni diverse dalla minore età, modificare l’art. 120 c.p. e attribuire al pubblico ministero presso il tribunale dei minori (in caso di minore età) o presso il tribunale ordinario (per i maggiorenni incapaci) il potere di procedere d’ufficio. In alternativa, nel caso di minori, il potere potrebbe essere conferito all’avvocato del minore, figura ancora nuovissima, ma già esistente nei procedimenti di volontaria giurisdizione e di adozione innanzi al Tribunale per i Minorenni.

Una strada ulteriore potrebbe essere l’allungamento a sei mesi del termine per proporre querela, l’irrevocabilità della querela e la procedibilità di ufficio nel caso in cui il fatto sia connesso con un altro delitto per il quale si deve procedere di ufficio, come è già previsto per il delitto di violenza sessuale, (cfr. art. 609 septies c. 2 e 3 e c. 4 lett. 4) c.p.). Tale soluzione legislativa però sarebbe più facilmente percorribile laddove si prevedesse un reato autonomo, ovvero si estendesse la Legge Mancino ai reati di omofobia e transfobia.

Quali sono le sanzioni che possono derivare dalla applicazione del testo così come formulato e attualmente in discussione?

Nella legge Mancino accanto alle pene detentive sono previste pene accessorie al carcere, onde consentire una effettiva riabilitazione del reo. La ragione di tale previsione è la considerazione che la discriminazione (anche quella omofobica) è un fenomeno culturale, che la minaccia (o l’irrogazione) di una sanzione restrittiva della libertà personale non è idonea a sradicare.

Ci si riferisce in particolare agli articoli 1 bis – 1 sexies della Legge Mancino, che prevedono e regolano:

  • A) L’obbligo di prestare un’attività non retribuita a favore della collettività per finalità sociali o di pubblica utilità;
  • B) L’obbligo di rientrare nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora entro un’ora determinata e di non uscirne prima di altra ora prefissata, per un periodo non superiore ad un anno;
  • C) La sospensione della patente di guida, del passaporto e di documenti di identificazione validi per l’espatrio per un periodo non superiore ad un anno, nonché‚ il divieto di detenzione di armi proprie di ogni genere;
  • D) Il divieto di partecipare, in qualsiasi forma, ad attività di propaganda elettorale per le elezioni politiche o amministrative successive alla condanna, e comunque per un periodo non inferiore a tre anni.

In mancanza di una espressa previsione legislativa, tali pene non sono irrogabili tutte le volte in cui venga in considerazione la fattispecie oggetto del progetto di legge. Sarebbe invece opportuno farne espressa menzione.

Conclusione

Per come è concepita, la proposta in discussione appare inidonea ad affrontare i casi di omofobia che quotidianamente affliggono i cittadini omosessuali e trans di questo Paese al fine di superare lo stigma sociale che caratterizza la loro condizione. E ciò a partire dal titolo della proposta di legge che non fa alcuna menzione della parola omofobia, sottraendo in tal modo un criterio interpretativo al giudice per un esatto inquadramento delle finalità della legge e per una precisa individuazione del bene giuridico protetto.

Avv. Antonio Rotelli, Presidente Avvocatura per i diritti LGBT – Rete Lenford

Avv. Michele Potè, vice Presidente

Dott. Michele Bellomo

Avv. Francesca Bellocco

Avv. Susanna Bigi

Avv. Francesco Bilotta

Avv. Davide Binda

Avv. Donatella Brancadoro

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Avv. Livia Castelletti

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Dr.ssa Ylenia Z
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