Cassazione. HIV e diritto alla riservatezza

La somministrazione del test anti HIV presuppone, anche nei casi di necessità clinica, il consenso informato del paziente il quale ha diritto di prestarlo o negarlo. Da esso si può prescindere solo in caso di obbiettiva ed indifferibile urgenza del trattamento sanitario ovvero per specifiche esigenze di interesse pubblico. Resta onere del personale sanitario adottare tutte le misure necessarie a garantire il rispetto del diritto  della riservatezza del paziente onde evitare la diffusione a terzi di dati “sensibili” quali quelli relativi all’esito del test, alle condizioni di salute, all’orientamento sessuale del paziente medesimo.

 

Testo sentenza

 

Cassazione – Sezione terza – sentenza 14 novembre 2008 – 30
gennaio 2009, n. 2468
Presidente Di Nanni – Relatore Lanzillo

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 30.9.1997 A. V. ha
convenuto davanti al Tribunale di Perugia il prof. L. C. e
l’Azienda SSL omissis della Regione Umbria, chiedendo il
risarcimento dei danni nella misura di lire 1 miliardo
perché – essendo stato ricoverato il omissis presso
l’Ospedaleomissis per un forte attacco febbrile con diagnosi
di leucopenia – era stato sottoposto al test anti-HIV, senza
che gli fosse stato richiesto il consenso. Il test, eseguito
senza rispettare l’anonimato, aveva dato esito positivo e la
cartella clinica – recante anche la registrazione di dati
sensibili non rilevanti, fra cui la sua omosessualità –
era stata custodita senza alcuna riservatezza, sì che le
notizie relative alla sua salute si erano diffuse
all’interno e all’esterno dell’Ospedale, con suo grave
pregiudizio personale e patrimoniale, considerato che, di
conseguenza, egli aveva anche dovuto chiudere la sua
attività commerciale.
I convenuti hanno resistito alla domanda, affermando di
avere agito nell’esclusivo interesse del paziente, al fine
di giungere al più presto alla diagnosi per intraprendere
la terapia necessaria; che l’esecuzione del test senza il
preventivo consenso del paziente si era resa necessaria;
tanto che, se egli non avesse acconsentito, gli si sarebbe
dovuto rifiutare il ricovero o si sarebbe dovuta chiedere
alle competenti autorità l’autorizzazione al trattamento
sanitario obbligatorio. Hanno affermato che l’anonimato è
richiesto solo nei casi di indagini epidemiologiche; che la
cartella clinica era stata conservata in sala infermieri e
che era nota al solo personale medico e infermieristico.
Il Tribunale di Perugia ha respinto la domanda e la Corte di
appello di Perugia – con sentenza 26 febbraio/11 maggio 2004
n. 109 – ha respinto l’appello del V..
Con atto notificato il 15.92004 il V. propone ricorso per
cassazione contro la sentenza – notificatagli il 4.6.2004 –
per tre motivi. Resistono con unico controricorso la Azienda
SSL Umbria e gli eredi del prof. L. C., deceduto nelle more
del processo.

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo, deducendo l’erronea applicazione
dell’art. 5, 3° comma, legge 5 giugno 1990 n. 135, in
relazione agli art. 32 Cost. e 360 n. 3 cod. proc. civ., il
ricorrente lamenta che la Corte di appello abbia ritenuto
legittimo il comportamento del medico e dei sanitari
dell’Azienda convenuta esclusivamente in base al rilievo che
la sintomatologia da lui presentata induceva il sospetto che
fosse affetto da Aids, e che rispondeva ad esigenze di
necessità clinica, nel suo stesso interesse, che si
pervenisse al più presto a una diagnosi precisa.
Afferma il ricorrente che l’art. 5, 3° comma, legge n.
135/1990 cit. – secondo cui nessuno può essere sottoposto
a test anti HIV senza il suo consenso, “se non per motivi
di necessità clinica, nel suo interesse” – va
interpretato nel senso che si può prescindere dal consenso
del paziente solo nei casi in cui egli sia del tutto
impossibilitato a prestarlo; che solo tale interpretazione
è in linea con quella della Corte costituzionale – secondo
cui gli accertamenti sanitari che comportano prelievi ed
analisi trovano un limite invalicabile nel rispetto della
dignità e della riservatezza della persona che vi è
sottoposta (sentenza n. 218 del 1994) – e con le analoghe
disposizioni del Garante della privacy e dei principi della
deontologia medica.
Ove egli fosse stato informato, avrebbe potuto disporre che
il test venisse eseguito presso altro Ospedale, in luogo, in
cui non fosse conosciuto, considerato che non vi era alcuna
urgenza di procedervi.
1.1. – Il motivo è fondato.
Va condivisa l’opinione del ricorrente secondo cui la
lettura costituzionalmente orientata dell’art. 5, 3°
comma, legge n. 135/1990 porta a ritenere che il consenso
del paziente al test HIV – così come ad ogni altro
trattamento a cui debba essere sottoposto – deve essere
richiesto in ogni caso in cui ciò sia possibile, senza
pregiudizio per le esigenze di cura del paziente stesso o
per la tutela dei terzi.
Ed invero, se nessuno può essere obbligato ad un
determinato trattamento sanitario, salvo espressa
disposizione di legge (art. 32 Cost.), il malato ha il
diritto di essere preventivamente e tempestivamente
informato delle indagini cliniche e delle cure alle quali lo
si vuol sottoporre, in tutti i casi in cui possa esprimere
liberamente e consapevolmente la sua volontà.
Seguendo l’interpretazione dell’art. 5 adottata dalla
sentenza impugnata – secondo cui le necessità cliniche
sarebbero di per sé sufficienti a consentire di
prescindere dalla preventiva informazione del malato –
verrebbe sostanzialmente vanificato il diritto di
quest’ultimo di accettare o rifiutare le cure. Alla
personale valutazione dell’interessato si sostituirebbe
quella dei medici, i quali sono portati a somministrare
comunque i trattamenti ritenuti opportuni, qualunque ne sia
l’onere od il peso (sotto ogni profilo) per il paziente.
Va soggiunto che – anche quando il trattamento si riveli
indispensabile, per legge o nell’interesse pubblico – va
riconosciuto al malato quanto meno il diritto di scegliere i
tempi, i modi o i luoghi dell’intervento, in ogni caso in
cui ciò sia possibile.
Anche a tal fine è necessario che egli venga
preventivamente informato ed interpellato.
2. – Con il secondo motivo, deducendo violazione dell’art.
5, 1° comma, legge 135/1990, il ricorrente lamenta che
erroneamente la Corte di appello abbia escluso l’indebita
violazione della privacy ed abbia ritenuto che l’obbligo di
mantenere l’anonimato, con riguardo ai campioni prelevati
per le analisi, sia prescritto dalla legge solo in relazione
alle indagini epidemio
logiche.
A suo avviso l’art. 5 cit. – nel prescrivere l’anonimato per
tali indagini – non consente di escludere che il medesimo
requisito debba essere rispettato anche negli altri casi.
Avrebbero dovuto essere comunque adottate tutte le misure
idonee a salvaguardare il suo diritto alla riservatezza.
Al contrario, è stata indicata in piena evidenza nella
cartella clinica la sua omosessualità, e la cartella non
è stata custodita con la diligenza necessaria ad evitare
che di essa potessero prendere visione anche persone
estranee al personale sanitario.
3. – Con il terzo motivo, denunciando erronea disamina delle
risultanze processuali ed erronea motivazione in relazione
ad un punto decisivo della controversia, il ricorrente
lamenta che la Corte di appello abbia disatteso, ritenendola
inattendibile, la testimonianza di sua madre, che ha
dichiarato di avere appreso la sieropositività del figlio
dalla lettura della cartella clinica, abbandonata in sala
infermieri su di un termosifone, a disposizione di qualunque
curioso. La motivazione della Corte di appello, secondo cui
l’accesso alla sala infermieri è chiuso al pubblico, è
da ritenere insufficiente a giustificare la decisione, in
quanto è obbligo dei sanitari di predisporre tutte le
misure idonee a garantire la riservatezza dei pazienti
(quindi anche ad evitare che il pubblico acceda ai luoghi
riservati).
4. – I due motivi – che possono essere congiuntamente
esaminati, perché connessi – sono fondati.
Giustamente la Corte di appello ha ritenuto che l’art. 5,
1° comma, imponga l’anonimato solo per le indagini
epidemiologiche.
Ciò non consente di escludere, tuttavia, che anche per le
indagini cliniche debba essere rispettata quanto meno la
riservatezza del paziente, adottando tutte le misure idonee
a far sì che natura ed esito del test, dati sensibili
raccolti nell’anamnesi, e accertamento della malattia, siano
resi noti solo entro il ristretto ambito del personale
medico e infermieristico adibito alla cura e vengano
custoditi adottando tutti gli accorgimenti necessari ad
evitare che altri, ed in particolare il pubblico, possano
venire a conoscenza delle suddette informazioni.
Ciò dispone espressamente il citato 1° comma dell’art.
5, legge n. 135/1990, secondo cui gli operatori sanitari che
vengano a conoscenza di un caso di AIDS sono tenuti ad
adottare tutte le misure occorrenti per la tutela della
riservatezza della persona assistita.
La motivazione della sentenza impugnata appare sul punto
insufficiente.
La Corte non ha positivamente accertato se le modalità di
custodia della cartella clinica siano state tali da
prevenire concretamente il rischio che i terzi potessero
prendere visione del documento, custodendolo in luogo non
accessibile, neppure occasionalmente o di fatto, da parte
del pubblico.
A fronte della precisa disposizione dell’art. 5, sarebbe
stato onere del personale ospedaliero dimostrare di avere
adottato tutte le misure idonee allo scopo.
Il rilievo della Corte di merito, secondo cui la cartella
era stata lasciata in sala infermieri, locale riservato al
personale sanitario, non è di per sé sufficiente, in
mancanza di dimostrazione che a detta sala veniva
effettivamente impedito l’accesso del pubblico.
5. – La sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio
della causa alla Corte di appello di Roma, in diversa
composizione, affinché decida sulle domande attrici
uniformandosi ai seguenti principi di diritto:
“L’art. 5, 3° comma, legge 5 giugno 1990 n. 135 –
secondo cui nessuno può essere sottoposto al test anti HIV
senza il suo consenso, se non per motivi di necessità
clinica, nel suo interesse – deve essere interpretato alla
luce dell’art. 32, 2° comma, Cost., nel senso che, anche
nei casi di necessità clinica, il paziente deve essere
informato del trattamento a cui lo si vuole sottoporre, ed
ha il diritto di dare o di negare il suo consenso, in tutti
i casi in cui sia in grado di decidere liberamente e
consapevolmente”.
“Dal consenso si potrebbe prescindere solo nei casi di
obiettiva e indifferibile urgenza del trattamento sanitario,
o per specifiche esigenze di interesse pubblico (rischi di
contagio per i terzi, od altro): circostanze che il giudice
deve indicare nella motivazione”.
“A norma dell’art. 5, 1° comma, legge cit., è onere
del personale sanitario dimostrare di avere adottato tutte
le misure occorrenti allo scopo di garantire il diritto del
paziente alla riservatezza e di evitare che i dati relativi
all’esito del test ed alle condizioni di salute del paziente
medesimo possano pervenire a conoscenza dei terzi”.
6. – Il giudice di rinvio deciderà anche in ordine alle
spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione accoglie il ricorso. Cassa la
sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello
di Roma, in diversa composizione, che deciderà anche in
ordine alle spese del giudizio di cassazione.

 

 

(grazie a Salvatore SIMIOLI, Presidente Arcigay Napoli,  per la segnalazione)

 

 

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