I gay non si "convertono"

 

«L’impresa di trasformare un omosessuale in un eterosessuale non offre prospettive di successo molto migliori dell’impresa opposta», scriveva Freud nel 1920. Figlio del suo tempo, voleva a tutti i costi spiegare le «cause» dell’omosessualità, ma non certo per «curarla». Come invece, in passato, qualcuno ha fatto, magari accompagnando la proiezione di immagini-stimolo con scosse elettriche. Oggi, dopo l’eliminazione nel 1973 della «diagnosi» di omosessualità dal «Manuale Statistico e Diagnostico delle Malattie Mentali», la comunità scientifica internazionale considera l’omosessualità una variabile dell’orientamento sessuale e non una patologia.

Richieste di aiuto

 

Questo naturalmente non esclude che vi siano persone che si sentono a disagio con il proprio orientamento omosessuale e che per questo chiedono aiuto. Una domanda che contiene una varietà infinita di ragioni, che ricondurrei a due motivi di base: l’espressione di una fragilità psichica più generale (che chiamiamo «diffusione dell’identità»), di cui l’incertezza o il disagio nei confronti della propria sessualità altro non sono che una manifestazione; oppure la conseguenza dell’interiorizzazione dell’ostilità sociale (come uno che volesse schiarirsi la pelle per sopravvivere in una società razzista). Questo secondo caso prende il nome di «omofobia internalizzata»: è una condizione psichica caratterizzata da un’attitudine negativa (imbarazzo, vergogna, depressione) nei confronti della propria omosessualità (la «difformità» diventa «deformità»). In ogni caso un clinico, attento al vecchio adagio medico «primum non nocere», sceglie la strada dell’ascolto rispettoso, cercando di contestualizzare da un punto di vista psicologico, familiare e sociale il rifiuto di sé e la richiesta di cambiamento portati dal paziente (e quasi mai formulati in modo assoluto, ma in forme attenuate del tipo «non riesco ad accettarmi, mi aiuti a capire che cosa non va in me»). La proposta, che sta affacciandosi anche in Italia (per interessamento di associazioni religiose più che di società scientifiche), di una terapia cosiddetta «riparativa» per trasformare gli omosessuali in eterosessuali mi sembra rispondere a un’esigenza ideologica e non clinica. L’idea della «riparazione», del resto, presuppone quella di un danno odi un guasto. A un’incertezza dolorosa e difficile si risponde con un «pronto soccorso» di riconversione (con un’approccio più del tipo «ti dico io cosa devi fare» che «ti aiuto a capire perché stai male»). In contrasto con quanto affermato dalla comunità scientifica internazionale, le terapie «riparative» partono da una visione intrinsecamente patologica dell’orientamento omosessuale. È quindi legittimo domandarsi come si comporterebbero questi terapeuti di fronte a un paziente eterosessuale che chiede di «diventare omosessuale».

L’autorità esterna

 

Non c’è una letteratura empirica che supporti queste «terapie», ma pochi dati di carattere aneddotico, con campioni «di convenienza», privi di «follow- up» e non correlati a parametri fisiologici. Temo dunque che le terapie riparative finiscano per naufragare sugli stessi scogli di tutti i trattamenti che incoraggiano i pazienti a fondare su un’autorità esterna le scelte di vita. Esse affrontano solo un lato del conflitto del paziente e lo agiscono, anziché esplorarlo, nella relazione terapeutica. Rinforzano le tendenze dissociative anziché quelle integrative (si veda il volume pubblicato da Raffaello Cortina «Gay e lesbiche in psicoterapia», a cura di Paolo Rigliano e Margherita Graglia). Studi clinici mostrano che la terapia riparativa non solo non produce l’atteso riorientamento sessuale, ma spesso peggiora le condizioni psicologiche del soggetto: esasperando l’autodisprezzo e la vergogna, anziché coltivando (terapeuticamente) l’accettazione di sé. Proprio per questo le associazioni degli psichiatri e degli psicologi americani hanno sentito il bisogno di produrre un documento («Position statement on therapies focused on attempts to change sexual orientation-Reparative or conversion therapies») per disconoscere qualunque trattamento per indurre il paziente a modificare l’orientamento sessuale. Un punto su cui l’ordine dei medici e degli psicologi italiani dovrebbero iniziare a valutare se prendere posizione.

Articolo tratto da: Tutto scienze – La Stampa del 25 aprile 2007

 

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