Recentemente, in occasione della calendarizzazione del ddl Zan in aula al Senato, sono nuovamente giunte voci, anche provenienti da forze politiche che avevano votato il testo alla Camera, che vorrebbero ritornare sul concetto di identità di genere per eliminarne ogni riferimento. In particolare, le critiche – che ripropongono argomentazioni che nel corso della discussione della proposta di legge in Commissione erano già state superate – hanno ad oggetto una supposta difficoltà di interpretazione della nozione (che lascerebbe ai Giudici e alle Giudici un margine di discrezionalità eccessivamente ampio) che sarebbe, in ogni caso, troppo divisiva poiché darebbe luogo alla asserita autorizzazione al cambiamento di sesso che, in caso di approvazione della legge, nella narrazione da questi offerta, potrebbe ottenersi con una semplice presunta autodichiarazione sulla base dell’inclinazione del momento (recentemente la Presidente nazionale di Arcilesbica nel corso di un’intervista su Repubblica si è espressa parlando di pericolo di “autodefinizione legale di genere”). Non è così: Il disegno Zan non interviene in alcun modo sulla legge 164/1982 che- sebbene sia una legge datata e non del tutto adeguata alle esigenze delle persone trans e che sarebbe quindi opportuno modificare- continuerebbe a regolare la rettificazione anagrafica del sesso.
Ci sembra, quindi, opportuno riprendere alcune delle considerazioni e sviluppare gli spunti di riflessione che avevamo già riportato con la nostra nota sulle nozioni di sesso, genere e identità di genere, per spiegare perché, al di là delle considerazioni di carattere politico, le obiezioni sopra sinteticamente richiamate non hanno alcun fondamento dal punto di vista giuridico.
L’identità di genere, che il testo in discussione equipara alle altre condizioni personali delle vittime di fenomeni discriminatori, si riferisce alla percezione che ciascuna persona ha di sé come uomo o donna ed alle modalità in cui la manifesta, che può o meno avere corrispondenza con il sesso attribuito alla nascita e che si declina, pertanto, nella consapevolezza individuale e soggettiva della difformità ovvero della conformità tra la propria dimensione pubblica ed esteriore e quella più intima ed interiore. È una condizione che riguarda tutti e tutte noi. Ogni persona ha, infatti una propria identità di genere: negli anni è stata però decostruita la presunzione che essa possa essere assegnata sulla base del solo sesso biologico e questo approdo è stato recepito anche a livello giuridico.
La nozione di identità di genere, infatti, non appare per la prima volta nel nostro ordinamento con la proposta di legge contro l’omo-lesbo-bi-trans-fobia, la misoginia e l’abilismo ma è contenuta in numerosi atti normativi e pronunce giurisprudenziali del sistema giuridico italiano ed euro-unitario. Risulta, quindi, difficile comprendere l’asserito vulnus che la norma creerebbe.
Oltre alla Direttiva 2011/95 UE, sull’attribuzione della qualifica di rifugiato (recepita nel d.lgs. n. 18/2014), che fa espressamente riferimento al concetto di identità di genere, nella trattazione degli aspetti che possono costituire motivi di persecuzione, l’espressione è contenuta anche nella Direttiva 2012/29 UE, che istituisce disposizioni minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, nonché nella Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (c.d. Convenzione di Istanbul).
Il riferimento all’identità di genere non deve essere eliminato dal testo del DDL in esame perché è stato riconosciuto dalla Corte Costituzionale come «elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona», (si v. la sentenza n. 221/2015) che non può non meritare, pertanto, protezione. Questo principio è stato poi ribadito nella sentenza n. 180/2017 che conferma che «l’aspirazione del singolo alla corrispondenza del sesso attribuitogli nei registri anagrafici, al momento della nascita, con quello soggettivamente percepito e vissuto costituisca senz’altro espressione del diritto al riconoscimento dell’identità di genere».
Dal punto di vista del diritto non si tratta certo, quindi, di una nozione nuova: il riconoscimento giuridico di questa categoria semantica è già ampiamente avvenuto.
Anche qualora l’espressione portasse ad un allentamento della dimensione biologica – e così non è perché i concetti di genere e identità di genere fanno riferimento a condizioni personali e sfere della personalità e dell’identità personale che coesistono e non si pongono in contrasto con quello di sesso (anch’esso contenuto nel testo della norma) – questo alleggerimento della centralità delle caratteristiche anatomiche non farebbe ingresso nel nostro sistema giuridico con la legge Zan perché la nozione è già parte del nostro ordinamento, peraltro quale diritto fondamentale.
Il concetto di transessualismo, che alcuni oppositori della legge vorrebbero utilizzare per sostituire quello di identità di genere, giuridicamente si riferisce invece al momento successivo alla conclusione del percorso di transizione e ha quindi una portata molto più limitata, che determinerebbe l’ingiustificata esclusione di alcune vittime d’odio dall’ambito soggettivo di tutela: risulta peraltro difficile ipotizzare che l’autore di una condotta d’odio richieda i documenti di identità alla potenziale vittima prima di commettere il reato. Quanto al concetto di identità transessuale, che recentemente è stato proposto da alcuni rappresentanti politici, va evidenziato che dal punto di vista giuridico si tratterebbe di un concetto nuovo, con conseguenti eventuali problemi interpretativi connessi all’introduzione di una nozione nell’ordinamento; peraltro valgono anche per questa espressione le considerazioni riportate per il concetto di transessualismo: sarebbero esclusi dalla tutela coloro che non hanno ancora intrapreso o che non intendono intraprendere un percorso chirurgico di riassegnazione dei caratteri sessuali. Il richiamo a questi concetti all’interno della normativa penale specialistica di cui al ddl Zan, in un’ottica di promozione dell’uguaglianza e della pari dignità di ogni persona, non appare, quindi, opportuno.
In conclusione, per tutte le ragioni sopra brevemente richiamate, l’introduzione, nella proposta di legge Zan, delle nozioni di sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere e disabilità all’interno di una norma penale di protezione deve considerarsi assolutamente opportuna poiché qualifica in modo chiaro il bene giuridico protetto dall’intervento normativo che riguarda le modalità con cui gli autori e le autrici delle condotte definiscono le vittime d’odio e non invece come le stesse si qualificano: l’idea infatti è quella di rendere il ventaglio di tutele il più ampio possibile, proteggendo tutti gli aspetti dell’identità personale nella sua dimensione sessuale. Il disegno di legge Zan riguarda il movente d’odio e colpisce quindi le ragioni specifiche poste alla base di una condotta discriminatoria e correlate alle condizioni personali della vittima.
Francesca Guarnieri
socia di Rete Lenford
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DDL ZAN sesso, genere, identità di genere