Nelle ultime settimane il dibattito pubblico sul ddl Zan, finalmente calendarizzato in Commissione Giustizia al Senato, si è intensificato.
Alla crescente attenzione mediatica non sempre corrisponde, però, un adeguato sforzo di lettura e di comprensione del testo di legge.
Con questo contributo proveremo dunque ad analizzare il disegno di legge Zan, articolo per articolo, esponendone l’oggettivo contenuto e affrontando, nel merito, alcune delle critiche più ricorrenti.
Cos’è il “ddl Zan”?
Il ddl Zan (dal nome del primo firmatario della proposta, il deputato Alessandro Zan) è un disegno di legge che intende introdurre misure di contrasto alle discriminazioni e alle violenze fondate sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità della vittima.
Il testo di legge è il risultato dell’unificazione di più proposte di legge di iniziativa parlamentare presentate da deputate e deputati di diversi gruppi politici (C. 107 Boldrini, C. 569 Zan, C. 868 Scalfarotto, C. 2171 Perantoni e C. 2255 Bartolozzi). Dopo una non semplice opera di mediazione politica in Commissione Giustizia, la proposta di legge unificata è stata approvata in prima lettura alla Camera dei Deputati il 4 novembre 2020 ed è poi approdata, sotto forma di disegno di legge, in Commissione Giustizia al Senato.
Non è la prima volta che il Parlamento italiano affronta il tema dell’omotransfobia. Diverse volte in passato si tentò, senza successo, di approvare una legge contro i crimini e i discorsi d’odio di matrice omotransfobica, con le proposte e i disegni di legge Vendola (1996), Grillini (2002 e 2006), Di Pietro (2009), Concia (2009 e 2011) e Scalfarotto (2013). Molti di questi progetti normativi caddero sotto la scure del voto parlamentare sulle pregiudiziali di costituzionalità, spesso utilizzate in modo strumentale da forze politiche ostili al riconoscimento di tutele per le persone LGBTI+
Nel frattempo, numerosi Stati in Europa e nel mondo si sono dotati di una tutela penale rafforzata a difesa dell’orientamento sessuale (Albania, Andorra, Argentina, Austria, Belgio, Bosnia, Canada, Cipro, Colombia, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Georgia, Grecia, Irlanda, Islanda, Kosovo, Liechtenstein, Lituania, Lussemburgo, Macedonia del Nord, Malta, Monaco, Montenegro, Norvegia, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Romania, San Marino, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Stati Uniti, Sudafrica, Svezia, Svizzera, Ungheria) e dell’identità di genere (Albania, Argentina, Belgio, Bosnia, Canada, Cipro, Croazia, Finlandia, Francia, Georgia, Grecia, Islanda, Kosovo, Lussemburgo, Macedonia del Nord, Malta, Montenegro, Norvegia, Portogallo, Serbia, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Ungheria). Vi sono poi Stati, come il Brasile, in cui le leggi contro i crimini o i discorsi d’odio di matrice etnico-razziale vengono estese dalla giurisprudenza anche ai reati motivati da fattori legati alla sfera sessuale della vittima.
Sono dunque in molti a chiedersi se in Italia i tempi siano finalmente maturi per l’approvazione di questa legge, che rispetto al passato presenta la novità di una tutela estesa anche al sesso, al genere e – grazie all’approvazione dell’emendamento Noja – alla disabilità.
Cosa prevede il ddl Zan?
Il ddl Zan è costituito da un testo molto breve, composto di soli dieci articoli e idealmente scomponibile in due parti.
La prima parte (artt. 1 – 6) è dedicata alle disposizioni di natura penale-repressiva, con cui si intende colmare la lacuna legis attualmente esistente nella disciplina italiana contro i crimini d’odio, mediante l’estensione di una tutela penale rafforzata (attualmente riferita alle sole discriminazioni per razza, etnia, nazionalità e religione) ai profili identitari del sesso, del genere, dell’orientamento sessuale, dell’identità di genere e della disabilità.
La seconda parte (artt. 7 – 10) contiene invece disposizioni di natura propositiva, finalizzate a perseguire il fine della prevenzione dei fenomeni di violenza e discriminazione mediante azioni istituzionali, interventi educativi e attività di promozione sociale e culturale.
Art. 1
(Definizioni)
a) per sesso si intende il sesso biologico o anagrafico;
b) per genere si intende qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso;
c) per orientamento sessuale si intende l’attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi;
d) per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione
L’inserimento delle definizioni di sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere (assenti nell’originario testo unificato presentato alla Camera) deriva dall’approvazione dell’emendamento Annibali, finalizzato ad accogliere la richiesta, proveniente dalla Commissione Affari Costituzionali e dal Comitato per la Legislazione, di dotare di maggiore determinatezza i “fattori di rischio” a cui la legge vorrebbe estendere la tutela penale.
Le ragioni della scelta sono in realtà di natura prevalentemente politica, considerato che – sotto il profilo giuridico – non si avverte alcuna reale necessità di inserimento delle definizioni. Innanzitutto, perché qualsiasi definizione legislativa sconta il rischio di risultare impropria per eccesso, per difetto o per imprecisione (a ciò allude il brocardo “omnis definitio in iure periculosa”); inoltre, le parole “sesso”, “genere”, “orientamento sessuale” e “identità di genere” costituiscono, nel linguaggio penalistico, elementi normativi extragiuridici – al pari delle parole “razza”, “etnia”, “nazionalità” e “religione” – il cui significato viene già da decenni agevolmente ricavato, da parte della giurisprudenza, dalle scienze psico-sociali, nonché dall’esperienza comune e dal linguaggio corrente.
In ogni caso, non resta che prendere atto della scelta del legislatore. Le definizioni adottate, nel complesso soddisfacenti seppur formulate in modo essenziale, se non altro hanno avuto il pregio di permettere alla proposta di legge di superare, senza particolari ostacoli, le pregiudiziali di costituzionalità della Camera.
A scanso di equivoci, va sottolineato come le definizioni di “sesso”, “genere”, “orientamento sessuale” e “identità di genere” abbiano una valenza limitata al ddl Zan (come emerge dalla formula “ai fini della presente legge”) allo scopo di soddisfare esigenze di precisione, determinatezza e tassatività proprie del diritto penale. Appaiono quindi fuori luogo le preoccupazioni di chi teme che le stesse possano imporsi come vincolanti in settori normativi extrapenali.
Art. 2
(Modifiche all’articolo 604-bis del codice penale)
a) al primo comma, lettera a), sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «oppure fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità»;
b) al primo comma, lettera b), sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «oppure fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità»;
c) al secondo comma, primo periodo, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «oppure fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità»;
d) la rubrica è sostituita dalla seguente: «Propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, istigazione a delinquere e atti discriminatori e violenti per motivi razziali, etnici, religiosi o fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità».
Nell’ordinamento italiano la legislazione contro i crimini e i discorsi d’odio risale alla c.d. Legge Reale (L. 654/1975), che in attuazione della Convenzione di New York del 1966 ha introdotto norme penali volte a contrastare i fenomeni di razzismo. Tale disciplina è stata modificata a più riprese nel corso degli anni ed è stata integrata – con l’estensione della tutela al fattore della religione – dalla c.d. Legge Mancino (D.L. 122/1993, convertito con modificazioni nella L. 205/1993), per poi essere trasfusa nel codice penale agli artt. 604-bis e 604-ter, nella nuova sezione rubricata “Delitti contro l’eguaglianza”, in virtù della riserva di codice recata dal D.Lgs. 21/2018.
Attualmente, l’art. 604-bis c.p. prevede diverse fattispecie autonome di reato, che puniscono la propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico; la discriminazione e l’istigazione alla discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; la violenza, l’istigazione alla violenza e la provocazione alla violenza, per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; la promozione, direzione o partecipazione ad organizzazioni aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
L’art. 604-ter c.p. prevede invece una specifica circostanza aggravante “per i reati […] commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso”
Gli articoli 2 e 3 del ddl Zan intervengono sulla pluridecennale normativa italiana in materia di crimini d’odio, estendendo le fattispecie incriminatrici dell’art. 604-bis c.p. e l’aggravante dell’art. 604-ter c.p. (che attualmente riguardano solo la razza, la nazionalità, l’etnia e la religione della vittima) ad altre dimensioni della personalità umana, quali il sesso, il genere, l’orientamento sessuale, l’identità di genere e la disabilità. Ciò sulla base della considerazione che le violenze e le discriminazioni legate alla sfera sessuale e alla disabilità, al pari di quelle razziste o motivate dall’odio religioso, rappresentano un fenomeno strutturale e particolarmente allarmante all’interno della nostra società e richiedono, pertanto, una reazione sanzionatoria adeguata da parte dell’ordinamento.
Con la previsione di uno specifico reato e di una specifica aggravante, dotati di maggiore afflittività rispetto alle ipotesi comuni, è inoltre possibile esercitare un’effettiva deterrenza in relazione a quelle microaggressioni sistematiche (percosse, minacce, danneggiamento, etc.), motivate dall’identità sessuale o dalla disabilità della vittima, rispetto alle quali le fattispecie attuali – quand’anche aggravate – si rivelano del tutto insufficienti, prevedendo le stesse un massimo edittale di pena estremamente irrisorio.
È importante sottolineare che il ddl Zan non estende ai nuovi fattori di discriminazione la fattispecie di propaganda di idee (definita dalla Corte di Cassazione come qualsiasi “divulgazione di opinioni finalizzata ad influenzare il comportamento o la psicologia di un vasto pubblico ed a raccogliere adesioni”), ponendosi così nel solco della Legge Mancino, che nel 1993 escluse la propaganda di idee (allora “diffusione di idee”) dall’estensione normativa della Legge Reale al fattore della religione.
La propaganda di idee, pur non essendo mai stata dichiarata incostituzionale, è da sempre fattispecie sospetta di incostituzionalità, in quanto ‘reato di pericolo astratto’ che punisce l’esternazione pubblica di un mero convincimento, per quanto riprovevole.
La propaganda di idee, dunque, è e continuerà ad essere punita solo nelle ipotesi di propaganda razzista, cosicché affermazioni come quelle a sostegno dell’unicità del modello familiare tradizionale o contrarie alle adozioni da parte di coppie omosessuali non saranno in alcun modo passibili di sanzione penale (contrariamente a quanto vorrebbero far credere alcuni soggetti disinformati o in malafede).
Ad essere sanzionata sarebbe la diversa ipotesi di istigazione (alla discriminazione o alla violenza) per motivi di sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere o disabilità.
L’istigazione, a differenza della propaganda, è un ‘reato di pericolo concreto’ che richiede i requisiti della fattività e della concretezza, ossia l’accertamento di uno stretto nesso di consequenzialità ipotetica tra le parole e gli atti violenti o discriminatori. In altre parole, l’istigazione presuppone l’idoneità dell’invito discriminatorio o violento ad essere recepito e tradotto in azione dai destinatari (ad esempio, il presidente di un’associazione di ristoratori che esorti gli associati a rifiutare l’ingresso nei propri locali a coppie omosessuali).
La Cassazione (Cass. n. 31655/2001) ha negato che il reato di istigazione a compiere atti di discriminazione contrasti con il diritto di libera manifestazione del pensiero previsto dall’art. 21 Cost., poiché “l’incitamento ha un contenuto fattivo di istigazione ad una condotta, quanto meno intesa come comportamento generale, e realizza un quid pluris rispetto ad una manifestazione di opinioni, ragionamenti o convincimenti personali”.
A legittimare e a suggerire l’incriminazione dell’istigazione omotransfobica vengono inoltre in rilievo diversi atti di soft law. Si pensi, ad esempio, alla Risoluzione del Parlamento europeo del 4 febbraio 2014 sulla tabella di marcia dell’UE contro l’omofobia e la discriminazione legata all’orientamento sessuale e all’identità di genere, secondo cui “gli Stati membri dovrebbero […] adottare legislazioni penali che vietino l’istigazione all’odio sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere”; oppure alla LGBTIQ Equality Strategy 2020 – 2025 della Commissione europea, avente tra i suoi fini anche quello di aggiungere i crimini e i discorsi d’odio contro le persone LGBTIQ all’elenco dei c.d. “eurocrimini” di cui all’art. 83 TFUE. Si tratta di quei reati – espressione di una sorta di diritto penale minimo europeo – che tutti gli Stati membri dovrebbero introdurre nei rispettivi ordinamenti al fine di contrastare su basi comuni determinati fenomeni criminosi di rilevanza transnazionale.
È quindi di lampante evidenza che l’istigazione non integri un reato di opinione, trattandosi invece di una fattispecie che realizza un legittimo bilanciamento tra la libertà di espressione e altri valori costituzionalmente tutelati (quali la dignità umana, la libertà morale, l’eguaglianza sostanziale, l’onore e la reputazione).
Infine, è opportuno chiarire che, secondo la costante giurisprudenza sulle leggi Reale e Mancino, i reati di discriminazione e di istigazione alla discriminazione non si riferiscono a qualsiasi disparità di trattamento riservata a un soggetto in ragione delle caratteristiche protette dalla norma, ma solo a quei comportamenti che integrino una discriminazione in senso pregnante. Secondo la Corte di Cassazione, la discriminazione penalmente rilevante è quella ricavabile, in primo luogo, dall’art. 1 della Convenzione di New York contro il razzismo del 1966, ai sensi del quale costituisce discriminazione “ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza […] che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni altro settore della vita pubblica” (cfr. Cass. n. 42258/2006).
Diverse sentenze hanno poi affermato che la discriminazione penalmente rilevante debba presentare un dolo specifico, che sussiste solo nel caso in cui l’agente operi con la precisa finalità di “offendere la dignità e l’incolumità della vittima in considerazione di fattori etnici, religiosi o razziali” (v. Cass. n. 7421/2002).
Non si può, peraltro, ignorare che la nozione di discriminazione è ulteriormente circoscritta dall’applicazione del principio di offensività in concreto (nullum crimen sine iniuria), in base al quale non risulta punibile una discriminazione innocua, ossia non concretamente offensiva del bene giuridico tutelato dalla norma.
Art. 3
(Modifica all’articolo 604-ter del codice penale
1.All’articolo 604-ter, primo comma, del codice penale, dopo le parole: « o religioso, » sono inserite le seguenti: « oppure per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità,».
Analogamente a quanto previsto dall’art. 2 per le fattispecie autonome di reato dell’art. 604-bis c.p., l’art. 3 del ddl Zan prevede l’estensione della circostanza aggravante dell’art. 604-ter c.p. ai fattori di rischio legati alla sfera sessuale e alla disabilità. L’aggravante, così integrata, stabilirebbe che “per i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, oppure fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità la pena è aumentata fino alla metà”.
Una critica mossa di frequente al ddl è quella per cui gli strumenti già attualmente previsti dalla legge sarebbero di per sé sufficienti a prevenire e a reprimere i crimini d’odio di matrice misogina, abilista e omolesbobitransfobica. Uno di questi strumenti sarebbe costituito dall’aggravante dei motivi futili o abietti (art. 61, n. 1, c.p.).
La critica non coglie nel segno.
L’aggravante di discriminazione dell’art. 604-ter c.p. (attualmente applicabile solo alla razza, all’etnia, alla nazionalità e alla religione) è più afflittiva rispetto all’aggravante dei motivi futili o abietti. Si tratta infatti di un’aggravante che il giudice applica obbligatoriamente senza particolari margini di discrezionalità (al contrario, la futilità o l’abiezione dei motivi sono concetti ampiamente valutativi); è un’aggravante ad effetto speciale (l’aumento di pena non è di un terzo, ma fino alla metà, con tutta una serie di conseguenze indirette come l’allungamento del termine di prescrizione); è un’aggravante privilegiata (a differenza dei motivi futili o abietti, il giudice è obbligato ad applicarla senza poterla “neutralizzare” ritenendo prevalenti o equivalenti eventuali circostanze attenuanti nell’ambito del c.d. giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p.). Inoltre, ai crimini d’odio di cui agli artt. 604-bis e 604-ter c.p. sono applicabili diverse sanzioni accessorie (ad esempio l’attività non retribuita a favore della collettività), che non risultano invece applicabili ai reati aggravati dai motivi abietti o futili.
La scelta di prevedere una più severa disciplina ad hoc per i crimini d’odio non è frutto di una deriva populista del diritto penale, ma si basa al contrario su solide fondamenta dogmatiche e di politica criminale.
Il maggior rigore punitivo che viene riservato ai crimini d’odio risiede sia nella loro maggior riprovevolezza soggettiva (si aggredisce un soggetto per quello che è, non per quello che fa o per via di altre circostanze), sia nella loro maggiore offensività. Oltre alla vittima principale, infatti, risultano offesi dal reato anche tutti coloro che presentano la medesima “caratteristica ascrittiva”, rispetto ai quali il crimine d’odio costituisce una sorta di messaggio minaccioso e intimidatorio (la letteratura criminologica parla infatti di message crimes).
Anche in questo caso, il ddl Zan intende quindi colmare una lacuna di legge, apparendo ingiustificato riservare ai crimini d’odio fondati sulla sfera sessuale o sulla disabilità della vittima un trattamento sanzionatorio più mite rispetto ai crimini d’odio di matrice razziale e religiosa. Attualmente, un crimine d’odio perpetrato per motivi di sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere o disabilità risulta sanzionabile alla stregua di un’aggressione motivata dalla lite per un parcheggio o per una rivalità calcistica (classici casi in cui viene riconosciuta l’aggravante dei motivi abietti o futili di cui all’art. 61, n.1, c.p.).
Vi è poi chi ha osservato, sotto un profilo linguistico e culturale, che nominare legislativamente un fenomeno sociale poco percepito, ma dannoso ed estremamente diffuso, quale quello delle discriminazioni sessuali e abiliste, consente alla collettività di riconoscerlo e di affrontarlo con maggiore efficacia nella sua specificità.
Infatti, se è vero che in uno Stato liberaldemocratico il diritto penale non dovrebbe mai assumere una valenza simbolica o pedagogica, è altrettanto vero che lo stesso presenta l’indefettibile funzione di orientare i comportamenti umani mediante l’indicazione delle condotte connotate da maggior disvalore.
Art. 4
(Pluralismo delle idee e libertà delle scelte)
L’articolo 4 contiene la c.d. clausola “salva-idee”, derivante dal compromesso raggiunto dalle forze politiche sull’emendamento Costa, riformulato rispetto alla versione originaria (che ricalcava l’emendamento Verini al ddl Scalfarotto).
La clausola rimarca l’intangibilità della libertà di espressione del pensiero sancita dall’art. 21 Cost., purché l’esercizio della stessa non sfoci in condotte abusive che provochino la concreta messa in pericolo di altri beni costituzionalmente rilevanti, quali l’integrità fisica, la libertà morale, l’eguaglianza o la dignità umana. In particolare, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è costante nell’affermare la possibilità per gli Stati del Consiglio d’Europa di ricercare un bilanciamento tra libertà di espressione e altri diritti fondamentali, sanzionando penalmente il discorso discriminatorio nei confronti di un gruppo sociale (quale quello delle persone omosessuali), attuato in modo irresponsabile, incontinente e lesivo dell’altrui dignità (v. la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo Vejdeland ed altri c. Svezia del 9 febbraio 2012 e da ultimo la sentenza Lilliendahl c. Islanda dell’11 giugno 2020).
La clausola “salva-idee” riecheggia le clausole previste a tutela della libertà di espressione dalle legislazioni contro i crimini d’odio di alcuni ordinamenti di common law (Australia, Part IIA, Section 18D, del Racial Discrimination Act del 1975; Regno Unito, Section 29JA del Public Order Act del 1986; Stati Uniti, S.909 – Matthew Shepard Hate Crimes Prevention Act del 2009, Sec. 10. (4)), in cui è particolarmente sentita la necessità di salvaguardare la libertà di espressione del pensiero. Tuttavia, non sempre necessario o felice si rivela il trapianto normativo di istituti giuridici da ordinamenti di common law ad ordinamenti, come il nostro, di civil law (e viceversa).
A ben vedere, infatti, si tratta di una clausola superflua, giacché nel nostro ordinamento non vi è alcun bisogno che una legge ordinaria ribadisca la salvaguardia di una libertà fondamentale già garantita dalla Costituzione e dalle fonti internazionali e sovranazionali, quale la libertà di espressione. Infatti, nessuna clausola “salva-idee” è stata prevista dalle leggi Reale e Mancino per la diffusione/propaganda di idee, l’incitamento/istigazione e la discriminazione di matrice razziale o religiosa.
Il fatto che la Corte di Cassazione (v. Cass. nn. 31655/2001 e 37581/2008), pur in assenza di una clausola siffatta, abbia più volte dichiarato la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale relative a quelle fattispecie in ordine alla presunta violazione della libertà di espressione – senza che in quarantasei anni la Corte costituzionale sia mai stata chiamata a pronunciarsi – è la più lampante dimostrazione dell’inutilità dell’articolo 4.
A ciò si aggiunga che, come già evidenziato, il ddl Zan non estende ai nuovi fattori di rischio il reato di propaganda di idee, l’unico rispetto al quale si potrebbe realmente porre un problema di compressione della libertà di espressione
La formulazione letterale della disposizione, peraltro, non rende affatto agevole l’inquadramento dogmatico della stessa: si potrebbe sostenere che si tratti di una causa di esclusione della tipicità oppure di una causa di giustificazione (mentre sembra più difficile ritenere che si tratti di una scusante, fondata sull’inesigibilità della condotta alternativa lecita, o di una causa di non punibilità in senso stretto, fondata su ragioni di opportunità). In realtà questa difficoltà qualificatoria non sorprende, se si pensa che la clausola “salva-idee” è probabilmente ispirata alle omologhe disposizioni anglosassoni, appartenenti a una tradizione giuridica che si discosta ampiamente dalle nostre categorie.
Più verosimilmente, all’interno del nostro ordinamento la disposizione dell’articolo 4 non presenta un carattere innovativo, avendo al contrario natura meramente ricognitiva e riassuntiva di princìpi costantemente ricavati in via interpretativa dalla giurisprudenza nazionale e sovranazionale. La funzione della clausola “salva-idee” è dunque eminentemente politica, essendo volta a fornire rassicurazioni a quella parte dell’elettorato che nutre infondati timori relativi a una possibile strumentalizzazione censoria dei delitti contro l’eguaglianza.
Eppure, nonostante la presenza di una clausola tanto ridondante quanto eloquente in ordine alla tutela della libertà di espressione, sono ancora molte e insistenti le voci allarmistiche che, in modo del tutto infondato, sostengono che la legge Zan finirà per essere una legge-bavaglio per tutti coloro che non si sottomettono ad una fantasiosa dittatura del “pensiero unico”.
Art. 5
(Modifiche al decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122)
a) all’articolo 1:
1) al comma 1-bis, alinea, le parole: « reati previsti dall’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654 » sono sostituite dalle seguenti: « delitti di cui all’articolo 604-bis del codice penale ovvero per un delitto aggravato dalla circostanza di cui all’articolo 604-ter del medesimo codice »;
2) il comma 1-ter è sostituito dal seguente:
« 1-ter. Nel caso di condanna per uno dei delitti indicati al comma 1-bis, la sospensione condizionale della pena può essere subordinata, se il condannato non si oppone, alla prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività secondo quanto previsto dai commi 1-quater, 1-quinquies e 1-sexies. Per i medesimi delitti, nei casi di richiesta dell’imputato di sospensione del procedimento con messa alla prova, per lavoro di pubblica utilità si intende quanto previsto dai commi 1- quater, 1-quinquies e 1-sexies »;
3) al comma 1-quater:
3.1) le parole: « , da svolgersi al termine dell’espiazione della pena detentiva per un periodo massimo di dodici settimane, deve essere » sono sostituite dalla seguente: « è »;
3.2) dopo la parola: « giudice » sono inserite le seguenti: « , tenuto conto delle ragioni che hanno determinato la condotta,»;
4) al comma 1-quinquies, le parole: « o degli extracomunitari » sono sostituite dalle seguenti: « , degli stranieri o a favore delle associazioni di tutela delle vittime dei reati di cui all’articolo 604-bis del codice penale »;
5) alla rubrica, dopo la parola: « religiosi » sono inserite le seguenti: « o fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità »;
b) al titolo, le parole: « e religiosa » sono sostituite dalle seguenti: « , religiosa o fondata sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità ».
2.Dall’attuazione del comma 1 non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
3. Entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, con regolamento adottato con decreto del Ministro della giustizia, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono determinate, nel rispetto di quanto previsto dal comma 2, le modalità di svolgimento dell’attività non retribuita a favore della collettività, di cui all’articolo 1 del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, come modificato dal comma 1 del presente articolo.
L’articolo 5 svolge una funzione di coordinamento legislativo tra le disposizioni tuttora vigenti della Legge Mancino (D.L. 122/1993, convertito con modificazioni nella L. 205/1993) e le nuove disposizioni del codice penale (introdotte con la riserva di codice del 2018), sostituendo il rinvio normativo alla Legge Reale (L. 654/1975) con un rinvio alle corrispondenti disposizioni “trapiantate” agli artt. 604-bis e 604-ter c.p. dal D.Lgs. 21/2018.
Non introduce, dunque, alcuna novità se non quella di cui diremo appresso.
Il rinvio ai nuovi articoli del codice penale, che risulterebbero ampliati dall’approvazione della legge Zan, avrebbe l’effetto di determinare l’estensione delle pene accessorie, previste dalla Legge Mancino per gli autori di crimini d’odio aventi matrice razziale e religiosa, anche agli autori dei reati fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità della vittima.
Le pene accessorie, applicabili dal giudice facoltativamente a fini rieducativi o preventivi, possono consistere – alternativamente o cumulativamente – in un’attività non retribuita a favore della collettività per finalità sociali o di pubblica utilità; nell’obbligo di rientro domiciliare entro una certa ora; nella sospensione della patente di guida o del passaporto; nel divieto di partecipare, in qualsiasi forma, ad attività di propaganda elettorale.
Per quanto riguarda, in particolare, la prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività, viene previsto che la stessa possa costituire condizione – se il condannato non si oppone – per la concessione sospensione condizionale della pena. Ed è questa l’unica novità introdotta, in punto, dal ddl Zan.
Viene inoltre stabilito che, in caso di richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, il lavoro di pubblica utilità svolto dall’imputato debba consistere nelle attività non retribuite a favore della collettività descritte all’art. 1, comma 1-quinquies, della Legge Mancino. Tali attività vengono integrate dall’art. 5 del ddl Zan in modo da ricomprendervi anche quelle svolte “a favore delle associazioni di tutela delle vittime dei reati di cui all’articolo 604-bis del codice penale” (ossia quelle che si occupano di contrasto alla violenza di genere, abilista e omolesbobitransfobica), in un’evidente prospettiva di rieducazione del reo e di giustizia riparativa. Le specifiche modalità di svolgimento di tali attività vengono demandate ad un apposito decreto ministeriale.
Art. 6
(Modifica all’articolo 90-quater del codice di procedura penale)
L’articolo 6 del ddl Zan modifica l’articolo 90-quater c.p.p., estendendo la qualifica di persona in condizione di particolare vulnerabilità, già presente nel nostro ordinamento, anche alle vittime di reato motivato dal sesso, dal genere, dall’orientamento sessuale, dall’identità di genere o dalla disabilità. Ciò comporterebbe l’obbligo per l’autorità giudiziaria di adottare a tutela delle stesse una serie di misure garantistiche nell’assunzione delle sommarie informazioni e delle prove testimoniali (artt. 190-bis, 351, 362, 498, comma 4-quater, c.p.p.), volte ad assicurare la convocazione della vittima solo in caso di reale necessità, l’assenza di contatti tra la vittima e l’indagato, il ricorso a professionisti esperti nelle scienze psico-sociali, l’adozione di modalità protette nell’esame e nel controesame (ad esempio, l’utilizzo di un paravento o di un vetro a specchio).
È prevista altresì la possibilità di procedere all’assunzione della testimonianza mediante incidente probatorio (art. 392, comma 1-bis e art. 398, comma 5-bis, c.p.p.) anche in luogo diverso dal tribunale, ad esempio presso strutture di assistenza o l’abitazione della persona interessata all’assunzione della prova.
La modifica all’art. 90-quater c.p.p. si pone in linea con quanto previsto dalla Direttiva 2012/29/UE (c.d. “Direttiva vittime”), che oltre a riconoscere la particolare condizione di vulnerabilità delle vittime di reato per motivi di sesso, orientamento sessuale, identità di genere, ruolo di genere e disabilità, prescrive agli Stati l’adozione di misure idonee ad evitare il rischio di vittimizzazione secondaria, di vittimizzazione ripetuta, di intimidazione e di ritorsioni ai danni della persona offesa. Per “vittimizzazione secondaria”, in particolare, si intende la sottoposizione della vittima ad una nuova ed ulteriore violenza rispetto a quella del reato, di natura psicologica e sociale, da parte dei soggetti coinvolti a vario titolo nell’accertamento o nella cronaca del reato (magistratura, avvocatura, polizia, medici, periti e consulenti tecnici, giornalisti e media), che potrebbero adottare comportamenti di incredulità, di diffidenza o di colpevolizzazione nei confronti della stessa oppure esporla all’attenzione morbosa dell’opinione pubblica.
Art. 7
(Istituzione della Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia)
L’articolo 7 è il primo dei quattro articoli del ddl Zan che, abbandonando le sponde del diritto penale, si occupano di predisporre azioni di prevenzione istituzionale e culturale.
È senz’altro da apprezzare la previsione di azioni, di interventi e di politiche attive, complementari alla leva sanzionatoria penale, che abbiano la finalità di incidere positivamente sulla cultura del rispetto e della valorizzazione delle diversità nel nostro Paese.
A questo scopo, viene innanzitutto proposta l’istituzione della Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia per il 17 maggio di ogni anno, in corrispondenza con l’omonima giornata mondiale (International Day Against Homophobia, Biphobia and Transphobia – IDAHOBIT), che viene celebrata dal 2004 per commemorare la decisione del 17 maggio 1990 dell’Organizzazione mondiale della sanità di rimuovere l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali.
La giornata nazionale avrebbe lo scopo di “promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché di contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere”, incentivando le pubbliche amministrazioni e le scuole ad organizzare attività dedicate in occasione della ricorrenza
Come emerge chiaramente dalla disposizione in esame, la Giornata nazionale non prevede alcun obbligo per gli enti destinatari, rappresentando tutt’al più un’importante occasione di studio, approfondimento, informazione e sensibilizzazione, nonché di incontro, confronto e riflessione sui temi dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere. Per quanto riguarda, nello specifico, il mondo della scuola, viene garantita e valorizzata l’autonomia scolastica, cosicché le attività relative alla Giornata nazionale non sarebbero imposte o “calate dall’alto”, ma si svolgerebbero “nel rispetto del piano triennale dell’offerta formativa […] e del patto educativo di corresponsabilità”, con il consenso e il coinvolgimento dei principali attori del mondo della scuola: studenti, genitori e docenti.
Non si comprende dunque in che modo si possa sostenere che un’iniziativa avente il solo fine di garantire “l’attuazione dei princìpi di eguaglianza e di pari dignità sociale sanciti dalla Costituzione”, lasciando peraltro libera scelta a tutti i soggetti istituzionali interessati, possa essere accusata di imporre nelle scuole l’inesistente “teoria gender”.
Affermare che il ddl Zan obbligherebbe i bambini a vestirsi da femmina e le bambine a vestirsi da maschio, o che insegnerebbe agli adolescenti che non vi è alcuna differenza tra i sessi, significa fare ricorso alla ben nota fallacia dell’argomento fantoccio (straw man argument), per suscitare sentimenti di paura e di ostilità nell’opinione pubblica.
Art. 8
(Modifiche al decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, in materia di prevenzione e contrasto delle discriminazioni per motivi legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere)
« 2-bis. Nell’ambito delle competenze di cui al comma 2, l’ufficio elabora con cadenza triennale una strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni per motivi legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere. La strategia reca la definizione degli obiettivi e l’individuazione di misure relative all’educazione e all’istruzione, al lavoro, alla sicurezza, anche con riferimento alla situazione carceraria, alla comunicazione e ai media. La strategia è elaborata nel quadro di una consultazione permanente delle amministrazioni locali, delle organizzazioni di categoria e delle associazioni impegnate nel contrasto delle discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere e individua specifici interventi volti a prevenire e contrastare l’insorgere di fenomeni di violenza e discriminazione fondati sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere.
2-ter. All’attuazione delle misure e degli specifici interventi di cui, rispettivamente, al secondo e al terzo periodo del comma 2-bis, le amministrazioni pubbliche competenti provvedono compatibilmente con le risorse disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica ».
I decreti legislativi n. 215/2003 e 216/2003 costituiscono una parte fondamentale del corpus normativo del diritto antidiscriminatorio italiano. Il primo recepisce la direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone in diversi ambiti (lavoro, istruzione, prestazioni sociali, assistenza sanitaria, accesso a beni e servizi, alloggio) senza discriminazioni per razza e origine etnica; il secondo è attuativo della direttiva 2000/78/CE, sulla parità di trattamento nella più limitata materia dell’occupazione e delle condizioni di lavoro, senza discriminazioni dirette o indirette per religione, convinzioni personali, handicap, età e orientamento sessuale.
Solo il D.Lgs. 215/2003, tuttavia, istituisce un apposito ufficio ministeriale avente la funzione di garantire l’effettiva e corretta applicazione delle norme antidiscriminatorie relative alla razza e all’etnia e di promuovere le pari opportunità in tale ambito. Si tratta dell’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), incardinato presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
L’art. 8 del ddl Zan interviene sull’art. 7 del D.Lgs. 215/2003, ampliando il novero delle competenze dell’UNAR allo scopo di renderlo un ufficio che si occupi non solo di discriminazioni per razza ed etnia, ma anche di discriminazioni legate alla sfera sessuale. Si tratterebbe, a dire il vero, di sancire per legge la doverosità – sotto forma di strategia nazionale triennale – di un’attività di contrasto delle discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere che già l’UNAR, in attuazione della Raccomandazione CM/Rec (2010)5 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, svolge da quasi un decennio (si pensi alla Strategia Nazionale LGBTI+ del 2013).
Nell’elaborazione della Strategia Nazionale, giocherebbero un ruolo fondamentale gli enti locali, le associazioni di categoria e il mondo dell’associazionismo, che in qualità di soggetti che si trovano direttamente a contatto con i fenomeni di discriminazione dei rispettivi territori sarebbero chiamati a fornire un prezioso contributo nell’ambito di una consultazione permanente promossa dall’UNAR.
L’articolo 8 precisa che il documento dovrà contenere l’indicazione di interventi e misure volti a contrastare le discriminazioni e le violenze per orientamento sessuale e identità di genere in diversi ambiti della vita sociale, quali l’educazione, l’istruzione, il lavoro, la sicurezza, le carceri, la comunicazione e i media.
Art. 9
(Modifica all’articolo 105-quater del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, in materia di centri contro le discriminazioni motivate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere)
L’art. 105-quater del D.L. 34/2020 (c.d. “Decreto Rilancio”) prevede un incremento pari a 4 milioni di euro del Fondo pari opportunità (a decorrere dal 2020), con vincolo di destinazione al finanziamento di politiche per la prevenzione e il contrasto della violenza per motivi legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere e per il sostegno delle vittime; inoltre, anche a seguito delle modifiche apportate dal D.L. 104/2020 (c.d. “Decreto Agosto”), lo stesso istituisce centri contro le discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere, i quali garantiscono alle vittime (o a soggetti vulnerabili per via del contesto sociale o familiare di appartenenza) adeguata assistenza legale, sanitaria, psicologica, di mediazione sociale e ove necessario adeguate condizioni di alloggio e di vitto.
La legge di conversione del Decreto Rilancio e il Decreto Agosto hanno dunque anticipato l’entrata in vigore delle disposizioni in materia di centri contro le discriminazioni originariamente contenute nell’art. 7 del testo base unificato della proposta di legge Zan adottato dalla Commissione Giustizia della Camera. Le stesse disposizioni, infatti, in quanto corrispondenti a norme già vigenti, non sono state più riproposte nel testo definitivo.
Si segnala che in attuazione dell’art. 105-quater del Decreto Rilancio è stato pubblicato dall’UNAR in data 10 marzo 2021 l’avviso per la selezione di progetti per la costituzione o il potenziamento di case accoglienza o di centri contro le discriminazioni motivate da orientamento sessuale e identità di genere. L’avviso è rivolto, in un’ottica di sussidiarietà verticale e orizzontale, agli enti locali e alle associazioni, in forma singola o – preferibilmente – associata. L’obiettivo è quello di creare sinergie virtuose tra istituzioni locali e associazionismo al fine di realizzare una disseminazione su tutto il territorio nazionale di servizi a tutela delle persone LGBTI+ oggetto di discriminazioni e violenze o in condizioni di vulnerabilità.
L’art. 9 del ddl Zan si limita ad effettuare un intervento di ortopedia normativa, poiché la formulazione attuale dell’art. 105-quater, evidentemente incompleta, si riferisce solo alle vittime di discriminazione o violenza fondata sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere (ossia alle vittime dei reati previsti dall’art. 604-bis c.p.), mancando invece qualsiasi riferimento alle vittime di reati aggravati per i medesimi motivi ai sensi dell’art. 604-ter c.p. L’aggiunta operata dall’art. 9 mira ad includere anche queste ultime tra i destinatari dei centri contro le discriminazioni.
Art. 10
(Statistiche sulle discriminazioni e sulla violenza)
A chiusura del disegno di legge, l’art. 10 affida all’ISTAT, in collaborazione con l’OSCAD, il compito di eseguire con cadenza almeno triennale una rilevazione statistica avente ad oggetto i fenomeni di violenza e di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, oppure fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere. Secondo un metodo statistico spesso utilizzato in questo tipo di rilevazioni, l’indagine dovrebbe misurare non solo i fatti, ma anche le opinioni delle vittime e quelle della generalità della popolazione, al fine di cogliere e di comprendere eventuali mutamenti dell’atteggiamento della collettività verso le minoranze. Un contrasto efficace dei crimini d’odio non può infatti prescindere dalla conoscenza delle radici sociali e culturali del fenomeno, spesso costituite da percezioni distorte, luoghi comuni, stereotipi e pregiudizi. L’art. 10, peraltro, accoglierebbe i numerosi inviti e sollecitazioni, provenienti dalle istituzioni internazionali e sovranazionali, a “mappare” i crimini d’odio, anche di matrice omotransfobica.
La Decisione Ministeriale n. 9/09 dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) prevede l’impegno per gli Stati a “raccogliere, conservare e divulgare dati e statistiche attendibili sufficientemente dettagliati sui crimini ispirati dall’odio e sulle manifestazioni violente di intolleranza, inclusi il numero di casi denunciati alle forze di polizia, il numero di casi perseguiti e le condanne comminate”; la già citata Risoluzione del Parlamento europeo del 4 febbraio 2014 prevede che “gli Stati membri dovrebbero registrare i reati generati dall’odio commessi contro persone LGBT”; il Rapporto dell’ECRI sull’Italia del 18 marzo 2016 sottolinea “la necessità di migliorare il sistema di raccolta dei dati sui reati penali legati alla violenza razzista e omofobica e transfobica, al fine di ottenere statistiche più precise e maggiormente dettagliate”.
L’accuratezza delle indagini statistiche demandate all’ISTAT dipenderà strettamente dal miglioramento dei sistemi di data collection a disposizione degli uffici giudiziari e delle forze dell’ordine (SDI e SICP in primo luogo). Grazie all’inserimento dei nuovi fattori di rischio agli artt. 604-bis e 604-ter c.p., tali sistemi sarebbero oggetto di un necessario aggiornamento, cosicché sarebbe possibile porre rimedio al fenomeno dell’under-recording di un’ampia fetta dei crimini d’odio che si consumano in Italia. In questo modo, sarebbe finalmente possibile censire come crimini d’odio motivati dalla disabilità o dalla dimensione sessuale della persona offesa quei reati che fino ad oggi, in assenza di una disciplina specifica, sono stati spesso registrati – in sede di denuncia o di condanna – come reati generici.
La previsione è da apprezzare anche perché si inserisce nella stessa logica della Vir (Verifica dell’impatto della regolamentazione), strumento utilizzato per verificare la coerenza e l’efficacia degli atti normativi del Governo mediante una verifica empirica dell’impatto degli stessi su cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni.
Anche per proposte/disegni di legge di iniziativa parlamentare è opportuno dotarsi di un supporto informativo volto a monitorare la perdurante utilità, l’efficacia e l’efficienza delle norme vigenti, al fine di confermare o correggere le politiche adottate, proponendo interventi di integrazione, modifica o abrogazione.
Nello svolgimento della Vir, si procede alla comparazione della situazione sociale o economica attuale con quella esistente all’epoca della formulazione delle norme, nonché alla valutazione degli effetti rilevati in relazione a quelli attesi. Al momento attuale, tuttavia, lo Stato italiano, in assenza di rilevazioni ufficiali e sistematiche dei crimini d’odio per i motivi non ancora contemplati dagli artt. 604-bis e 604-ter c.p., non dispone di un quadro chiaro che descriva la situazione iniziale. Sarà pertanto necessario attendere l’esito delle prime indagini ISTAT per individuare il punto di partenza rispetto a cui valutare la successiva evoluzione del fenomeno.
Conclusioni
Nonostante la presenza di alcuni profili di criticità (per la maggior parte frutto di compromessi politici volti ad assicurare alla legge un ampio consenso parlamentare), il ddl Zan si presenta nel suo complesso come un testo equilibrato, risultante da un’opera di sintesi tra diverse forze e sensibilità politiche, nonché dal recepimento di molte indicazioni derivanti dal mondo accademico e dai professionisti del diritto.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, è evidente che il disegno di legge non introduce reati d’opinione, ma si limita ad ampliare l’ombrello protettivo della normativa esistente contro i crimini e i discorsi d’odio. Questa normativa, nelle fattispecie di discriminazione e di istigazione alla discriminazione, individua un legittimo e ragionevole punto di bilanciamento tra la libertà di espressione e altri diritti e libertà costituzionalmente protetti.
Va poi escluso che il disegno di legge in questione abbia l’effetto di creare delle “categorie privilegiate” di soggetti o di produrre una “discriminazione alla rovescia”. Innanzitutto, non sono le leggi contro i crimini d’odio a forgiare nuove categorie sociali, ma sono l’odio e l’intolleranza, che quelle leggi vorrebbero combattere, a frantumare la società creando gruppi sociali di persone oppresse o vulnerabili. Inoltre, il ddl Zan, lungi dal tutelare le minoranze, tutela con scelta neutra alcune dimensioni fondamentali della personalità umana (quali il sesso, il genere, l’orientamento sessuale, l’identità di genere, la disabilità), cosicché anche le persone che appartengano a gruppi di maggioranza (numerica, sociale o culturale) risulterebbero protette contro eventuali, per quanto improbabili, atti violenti o discriminatori motivati dall’odio.
Infine, il testo di legge contiene un catalogo antidiscriminatorio in linea con le legislazioni straniere e con il quadro normativo internazionale e sovranazionale (in primis, la Convenzione di Istanbul del 2011 e la Direttiva 2012/29/UE, c.d. Direttiva “vittime”), in cui si fa espressa menzione del sesso, del genere (o del ruolo di genere), dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere. Non hanno quindi alcun fondamento giuridico le critiche di chi richiede l’espunzione dell’identità di genere dal novero dei fattori protetti, paventando terribili conseguenze per i diritti delle donne in settori extrapenali – quali l’ordinamento penitenziario, le gare sportive, le quote rosa nella composizione degli organi collegiali, la rettificazione anagrafica di sesso – che in nessun modo sarebbero interessati dal ddl Zan.
Stefano Ponti, Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford
Scarica il documento: DDL ZAN – Stefano Ponti