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La “riparazione” che danneggia

10 Gennaio 2009

 

Non solo il buon senso, ma anche un notevole corpus di studi culturali e scientifici considerano l’omosessualità (o meglio, le omosessualità) non una patologia, bensì un’espressione normale della sessualità, dell’affettività e del desiderio. Dell’attrazione per le persone del proprio sesso, molti studiosi (gli psicoanalisti in particolare, e più recentemente i biologi e i genetisti) hanno cercato di indagare le “cause”, ma nessuno è approdato a una risposta definitiva, o quantomeno convincente. Le leggi del desiderio sono imperscrutabili, tanto che persino un ricercatore instancabile come Freud (1905) era portato a ritenere che “anche l’interesse sessuale esclusivo dell’uomo per la donna è un problema che ha bisogno di essere chiarito e niente affatto una cosa ovvia”. Ma proprio quando la comunità scientifica internazionale mette finalmente in soffitta come anticaglie teoriche gravate dal pregiudizio tutte quelle posizioni che vedevano nell’omosessualità una forma di psicopatologia e dunque invocavano, in modo più o meno esplicito, una cura, il complesso rapporto tra professionisti della salute mentale e persone omosessuali si arricchisce di un capitolo alquanto scivoloso. Cosa deve fare lo psicologo quando non sono la società o la medicina o la religione a dire alla persona omosessuale “sei sbagliato”, “sei malato” o “sei moralmente disordinato”, ma è il soggetto stesso ad esserne convinto, al punto da chiedere a uno specialista di aiutarlo a “cambiare”? Su questo argomento si gioca una partita clinica, scientifica e deontologica di enorme importanza. Questa partita ha un nome tecnico: “omosessualità egodistonica”, cioè un disagio marcato e persistente riguardo al proprio orientamento sessuale. Si tratta di una categoria diagnostica depennata circa vent’anni fa dal Manuale Diagnostico e Statistico delle Malattie Mentali (DSM) in ragione del fatto che l’egodistonia rappresenta una componente frequente del percorso evolutivo delle persone gay e lesbiche che interiorizzano il pregiudizio antiomosessuale, assorbendolo dal contesto sociale e familiare. Oggi, nel DSM, la parola omosessualità non compare più, e rimane un riferimento al disagio nei confronti del proprio orientamento come sintomo del cosiddetto Disturbo Sessuale NAS (Non Altrimenti Specificato), con un sottile, ma importante, spostamento del focus diagnostico dall’omosessualità in sé al disagio psicologico che il soggetto (omo o etero che sia) prova quando si sente in conflitto con il proprio orientamento. A parte queste sottigliezze nosografiche, l’esistenza di persone egodistoniche rispetto alla propria omosessualità è innegabile. Ed essendo impossibile pensare allo sviluppo della sessualità umana al di fuori di una dimensione sociale, è più che probabile che sia l’ostilità (reale o immaginata) del contesto (o più semplicemente le norme sociali e culturali che regolano tale contesto) a far sì che una persona omosessuale possa diventare egodistonica, al punto da cercare di “convertirsi” all’eterosessualità. Un altro nome per definire questo fenomeno è “omofobia interiorizzata”: un conflitto tra la propria disposizione sessuale e la propria immagine di sé, caratterizzato da imbarazzo, vergogna, depressione e talvolta ideazione suicidaria. Un conflitto che, in un modo o nell’altro, cerca una soluzione: alcuni, spesso grazie a un contesto affettivo, o terapeutico, favorevole, elaborano la propria omofobia interiorizzata, accettano la propria identità gay/lesbica e ritrovano così fiducia e stima in se stessi; altri cercheranno di “guarire”, reputando l’omosessualità una malattia o un grave handicap sociale, e potranno chiedere aiuto a uno psichiatra o a uno psicologo. La prima cosa che lo psicologo deve fare è cercare di capire perché la persona, spesso giovane, che si rivolge a lui con questo problema vive “in disaccordo” con se stessa. Per la paura di deludere i genitori? Perché si sente “sbagliata” o “senza un posto”? Perché il peso di sentirsi “difforme” la fa sentire “deforme”? Perché ha una rappresentazione negativa, sul piano affettivo e cognitivo, di come sarà il suo futuro di gay o di lesbica? È un ragazzo che pensa che se sei omosessuale sei anche un debole e un perdente? Una ragazza che “vuole avere una vita normale”? Oltre a questo tipo di motivazioni, riconducibili alla convinzione di un’incompatibilità tra la realizzazione di sé come persona omosessuale e al tempo stesso come individuo mediamente felice, l’esperienza clinica mostra spesso come certe persistenti dimensioni conflittuali dell’identità sessuale appartengano al quadro più generale di una personalità particolarmente fragile o disturbata, con rappresentazioni di sé confuse o dissociate. Di difficile collocazione sono quelle situazioni in cui l’avversione verso il proprio orientamento sessuale si innesta su una dimensione valoriale di matrice religiosa. In questi casi, infatti, viene prima il precetto o il vissuto? Se prendiamo in considerazione le posizioni della Chiesa, che considera l’inclinazione omosessuale “oggettivamente disordinata” e le unioni affettive tra persone omosessuali indegne di riconoscimento sociale, è facile capire come una persona omosessuale e cattolica possa entrare in conflitto poiché il modo in cui sente è stigmatizzato proprio da quella Chiesa in cui crede. Una posizione di maggior accoglienza da parte della Chiesa nei confronti delle persone omosessuali e credenti sicuramente attenuerebbe la ferita della loro egodistonia e la croce di quel minority stress (lo stress legato all’appartenere a una minoranza) che segna la vita di molte persone omosessuali. Se poi alla negazione di una cittadinanza morale si aggiunge anche la mancanza di
riconoscimento giuridico (e inevitabilmente simbolico) della propria affettività, è assai difficile che una rappresentazione si consolidi nella mente come legittima e valida. Un effetto collaterale positivo dell’approvazione di una legge sul riconoscimento delle unioni civili sarebbe invece un progressivo prosciugamento della palude, psicologica e sociale, in cui prolifera l’omofobia. Non è evidente come l’omofobia, compreso il fenomeno in crescita del bullismo omofobico, si alimenti anche del mancato riconoscimento di un pieno diritto di cittadinanza alle persone omosessuali? Non vengono forse legittimati pensieri come: «Se la Chiesa considera queste persone indegne di formare una famiglia, e se lo Stato ne tollera la convivenza, purché senza celebrazioni e senza diritti e tutele, allora vorrà dire che in fondo, davanti a Dio e agli uomini, questi omosessuali non sono proprio cittadini come gli altri…»? Tornando al nostro psicologo (non importa se credente o non credente, cattolico o valdese, ebreo o buddista), riteniamo che di fronte al disagio, più o meno sintomatico, del cliente/paziente, abbia una sola strada da percorrere: “interrogare” il significato personale e collettivo del disagio, analizzare la domanda esplorando cosa sottende il desiderio di
diventare “eterosessuale”: quali paure, quali certezze infrante e aspettative deluse. Saper fare, in definitiva, contemporaneamente due cose: accogliere e ostacolare – cioè quello che, diceva Racamier, ogni oggetto buono deve fare. Accogliere i dubbi, le paure, la sofferenza. Ostacolare la distruttività e le soluzioni inautentiche, se necessario interrogando (non per questo stigmatizzando) quelle credenze a loro volta “egodistoniche” rispetto al percorso di realizzazione personale e alla capacità di curarsi di sé. Uno stile di intervento che si chiama “confrontazione” ed è comunemente praticato in psicoterapia. In un documento dell’American Psychiatric Association leggiamo che “l’allinearsi del terapeuta ai pregiudizi sociali contro l’omosessualità può rinforzare l’odio e il disprezzo di sé già provati dal paziente. Molti pazienti che si sono sottoposti a una terapia riparativa riferiscono di avere sentito dire dai loro terapeuti che gli omosessuali sono persone infelici e sole, e che non potranno mai essere accettate o contente. La possibilità che una persona gay o lesbica possa essere felice e vivere relazioni interpersonali soddisfacenti non viene presentata, né vengono presi in considerazione approcci alternativi per affrontare gli effetti della stigmatizzazione sociale”. Dubbi, e poco documentati sul piano scientifico, sono i successi della “conversione”. Che sia attuata, come i (fortunatamente pochi) seguaci dello psicologo Joseph Nicolosi propongono, con metodi “psicologici”, oppure, come è stato fatto in passato, con la proiezione di immagini-stimolo accompagnate da scosse elettriche o direttamente con l’elettroshock. Anche in questo caso basterebbe rivolgersi, più che a grandi teorie, a un’onesta conoscenza della clinica: “l’impresa di trasformare un omosessuale in un eterosessuale non offre prospettive di successo molto migliori dell’impresa opposta” (Freud, 1920). Eppure c’è chi, ancora oggi, propone questa fantomatica “riparazione”. E se non la “riparazione”, quantomeno un ascolto particolarmente rivolto alle possibilità di riconversione, indirizzando consapevolmente la terapia verso una repressione tout court dell’omosessualità, rinforzando le attività dissociative del paziente e producendo in definitiva un danno anziché un beneficio. Come testimonia Daniel Gonzales, un “sopravvissuto” alle terapie riparative, l’imposizione dell’aut aut fede/sessualità può portare a risultati indesiderati: “Crescendo come molti gay in un contesto religioso, innumerevoli volte ho pregato il signore di farmi diventare eterosessuale. E non lo ha mai fatto. Dopo aver provato con la fede e senza risultati positivi ho cominciato con una terapia che fino a quel momento non avevo mai provato. […] Come si conclude la terapia ex gay? […] Più di due anni e mezzo di repressione. […] Tutto di tasca mia: migliaia di dollari. Ma la cosa più tragica è stata la perdita della fede (cit. in Lingiardi, 2007, pp. 70-71). Non stupisce che vi siano persone spaventate o preoccupate dalla propria omosessualità, che non si accettano e sognano una vita eterosessuale; ma colpisce che vi siano medici e psicologi che, a questo disagio, aggiungono la propria preferenza (più o meno esplicitata) per una “soluzione eterosessuale”. Preferenza non necessariamente omofoba, talvolta semplicemente “eterofila”. Come più volte ribadito dalle associazioni dei professionisti della salute mentale americani, per esempio l’American Psychiatric Association (APA, 2000): “è un principio generale che un terapeuta non dovrebbe determinare né in modo coercitivo né esercitando una sottile influenza l’obiettivo di un trattamento. Le modalità psicoterapeutiche di conversione o «riparazione» dell’omosessualità sono basate su teorie dello sviluppo la cui validità scientifica è discutibile. Inoltre, i resoconti aneddotici di «cura» sono controbilanciati da dichiarazioni aneddotiche che denunciano un danno psicologico. Negli ultimi quarant’anni, i terapeuti «riparativi» non hanno prodotto alcuna rigorosa ricerca scientifica che sostanzi le loro dichiarazioni di cura. Fino a che non vi sarà accesso a tali ricerche, l’APA raccomanda ai suoi professionisti di astenersi eticamente dal tentativo di modificare l’orientamento sessuale di un individuo, avendo in mente l’adagio medico primum non nocere”. Le cosiddette “terapie riparative” (termine che implica che qualcosa sia rotto) si fondano su falsi presupposti circa lo sviluppo infantile, strettamente legati allo stigma antiomosessuale. Questi psicologi della riparazione ritengono infatti che la vita di una persona omosessuale sia stata segnata da un trauma o da una genitorialità inadeguata, da cui deriverebbe una carenza di mascolinità nell’uomo gay e di femminilità nella donna lesbica. Ecco un primo abbaglio: la lente eteronormativa confonde i percorsi dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere. E così le terapie riparative mirano a “rimettere le cose al loro posto”, incentivando stereotipati atteggiamenti maschili nei gay e femminili nelle lesbiche. I fautori delle terapie riparative vantano una percentuale di successo che dichiarano intorno al 30% dei soggetti trattati. Quello che viene omesso è la natura di tale successo: una reale conversione dell’orientamento o una repressione del comportamento omosessuale, ottenuta rinforzando difese disadattive come la negazione e la dissociazione? Una terapia non si può basare sul rinforzo del senso di colpa o del timore della disapprovazione sociale: piuttosto dovrebbere tendere ad alleviarli. Ma prima di esaminare questo “equivoco” è utile accennare all’eredità psicoanalitica su cui si appoggiano le terapie riparative (per una trattazione più completa si veda: Lingiardi & Luci, 2006; Rigliano, 2006). Tra gli anni ’60 e ’80 alcuni psicoanalisti elaborano teorie che più tardi avrebbero costituito la base (pseudo)scientifica delle attuali terapie riparative. Quella che pemette a Nicolosi (2004) di affermare: «Io non penso che l’omosessualità sia normale. La popolazione omosessuale è circa il 2%, 1.5-2%. Perciò statisticamente non è “normale” nel senso che non è molto diffusa. Oltre a questo, non è nemmeno normale in termini di natural design. Quando parliamo di legge naturale… quando guardiamo alla funzione del corpo umano, l’omosessualità non è normale. È un sintomo di qualche disordine. La normalità è ciò che adempie a una funzione in conformità al proprio design; questo è il concetto di legge naturale, e in questo senso l’omosessualità non può essere normale, perché l’anatomia di due uomini, i corpi di due uomini, o due donne, non sono compatibili». Stephen Mitchell (1981) ci aiuta a comprendere la tecnica fallace dei maestri di Nicolosi (Bieber, Ovesey, Socarides, Hatterer), assertori dell’intrinseca patologia dell’omosessualità: l’“approccio direttivo-suggestivo”. Una tecnica che scinde e dissocia i desideri omosessuali invece di analizzarli e integrarli, e che si fonda su due assunti indimostrati: l’omosessualità come patologia e i benefici derivati dalla sua “guarigione”. Con questo approccio il terapeuta sfrutta e gratifica il transfert agendo «il ruolo del genitore direttivo che sa tutto e può tutto […] al fine di ottenere una “pseudoeterosessualità” […] che ha pochissimo a che vedere con l’espressione spontanea di impulsi o desideri sgorganti dall’interno del paziente, e che ha invece tutta l’aria di essere un’interiorizzazione, fatta col naso tappato, dei valori e degli obiettivi del terapeuta, dunque un riflesso di ciò che Winnicott ha chiamato il falso Sé che si sviluppa su una base di condiscendenza» (p. 234). Nei racconti di chi si è (o, minorenne, è stato) sottoposto a terapie riparative, ricorrono contenuti di fallimento e di perdita. In quelli di chi ha intrapreso terapie che gli hanno consentito di identificare ed elaborare i propri conflitti, integrando gli affetti dissociati, troviamo, insieme a una maggiore consapevolezza di sé, la capacità di piacersi e di essere più contenti della propria vita. Nelle parole di Adriano, un paziente di 37 anni: «Ora comprendo tante cose del mio passato. Mi accadeva di raccontare a mia moglie che avevo lavoro extra da sbrigare, e andavo alla ricerca di uomini. Era qualcosa di irresistibile, incontrollabile. Non lo volevo, eppure lo facevo. Poi tornavo a casa e dovevo inventarmi una scusa per il mio ritardo, venivo invaso dai sensi di colpa e dall’ansia. Ero sempre vigile per la paura di essere “scoperto”, spesso con i colleghi facevo battute contro i gay e cercavo in tutti i modi di mostrarmi eterosessuale, facendo apprezzamenti sulle donne. Aver capito di essere gay e non avere più una vita parallela mi ha salvato: ora mi sento tutto intero» (cit. in Lingiardi & Nardelli, pp. 15-16). In fin dei conti, benché esistano alcune terapie dette “affermative”, contrapposte a quelle “riparative”, non è necessario “inventare” un tipo particolare di terapia per le persone omosessuali. È sufficiente un “ascolto rispettoso”, come avrebbe detto la psicoanalista Luciana Nissim (2001). Con almeno un orecchio, quello del terapeuta, pulito dai pregiudizi.

BOX: GLI EFFETTI DELLE TERAPIE RIPARATIVE

Shidlo e Schroeder (2002) hanno condotto una ricerca, pubblicata su Professional Psychology, su un campione di 202 soggetti allo scopo di valutare il funzionamento e gli effetti delle terapie riparative. Lo studio prende anche in esame le motivazioni che hanno condotto alla scelta di intraprendere una terapia riparativa: temi religiosi (senso di colpa e dannazione) e sociali (ansia anticipatoria per lo stigma antiomosessuale o per il rifiuto del gruppo di appartenenza); il desiderio di far parte di una comunità caratterizzata da un missione comune; il desiderio di salvaguardare il proprio matrimonio; un’imposizione esterna (per es. da parte della famiglia); la ricerca di aiuto per problemi psicologici quali ansia e depressione. Del campione studiato, il 74% si sottopone alla terapia su consiglio dell’operatore a cui si è rivolto. Gli autori denominano HBM (Homosexual Behavior Management, gestione del comportamento omosessuale) l’armamentario cognitivo appreso nel corso della terapia riparativa per far fronte ai desideri omoerotici e per incrementare comportamenti e desideri tipici dell’eterosessualità. Ne fanno parte, peresempio: la tecnica della covert sensitization, con cui si insegna al paziente di immaginare qualcosa di dissuasivo al fine di contrastare desideri omosessuali indesiderati (per esempio l’idea di contrarre l’HIV); oppure l’uso di sexual surrogate del sesso opposto (una pratica da espletare per telefono o fisicamente); la lettura della Bibbia e la preghiera. Rispetto alla percezione degli esiti della terapia, la ricerca identifica due gruppi di pazienti: quelli che considerano fallita la terapia (87%) e quelli che la riteng
ono riuscita (13%) (Figura 1). Del gruppo di “successo”, il 9% riferisce che i benefici sono stati ottenuti grazie all’uso dalle tecniche HBM, optando per il celibato oppure ingaggiando una continua lotta contro i propri desideri omoerotici; il 4% riferisce invece di aver ricevuto un aiuto nel cambiamento verso l’eterosessualità, percependosi come eterosessuale e negando di provare disagio con residui impulsi e desideri omoerotici (queste stesse persone ricoprono una posizione di tutoraggio nei gruppi ex-gay). Del gruppo “fallimentare”, il 10% è classificato come caratterizzato da un “recupero resiliente dell’identità gay” (cioè soggetti che non riportano danni a lungo termine, ma si sentono in certo qual modo “fortificati” dal fatto che, nonostante abbiano tentato la conversione, sono rimasti omosessuali). Il restante 77% accusa invece effetti collaterali negativi derivati dalla frustrazione di non essere riusciti nella conversione: depressione, ansia, dissociazione, abuso di sostanze, comportamenti compulsivi e autolesivi, inclusi ideazione o tentativi suicidari.