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PROPOSTA DI LEGGE
Disposizioni in materia di eguaglianza nell’accesso al matrimonio da parte delle coppie formate da persone dello stesso sesso
Nel 1990 l’Organizzazione mondiale della sanità ha derubricato definitivamente l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali, definendola semplicemente come una «variante del comportamento umano» (Decisione OMS, 17 maggio 1990). Il “mutamento di paradigma” derivatone, ha progressivamente indotto gli ordinamenti dei paesi occidentali a decriminalizzare le condotte omosessuali e a riconoscere i diritti delle persone omosessuali, declinando la condizione di omosessualità, in ambito giuridico, in tutela dell’orientamento sessuale, intesa come condizione personale rispetto alla quale, al pari della razza, del genere, della lingua, dell’orientamento religioso o delle opinioni politiche, vige il principio di non discriminazione. Così negli Stati Uniti diverse Corti Supreme si sono richiamate alla pregressa giurisprudenza in tema di discriminazione razziale per accogliere le eccezioni di incostituzionalità al divieto di matrimonio e alcune recenti Costituzioni nazionali hanno introdotto l’orientamento sessuale tra le “condizioni personali” tutelate dall’ordinamento. In molti Paesi il trend di una maggiore protezione giuridica, realizzata più diffusamente per via legislativa, è proseguito fino a giungere alla parità di trattamento nel diritto di famiglia, attraverso l’istituzione di nuove figure quali le registered o civil partnership (Francia, Germania, Austria, Lussemburgo, Regno Unito, Andorra, Repubblica Ceca, Ungheria, Irlanda, Slovenia, Svizzera e Lichtenstein), l’apertura del matrimonio alle coppie formate da persone dello stesso sesso (Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia, Paesi Bassi, Belgio, Spagna, Islanda, Portogallo), il riconoscimento della genitorialità sociale (intesa come il rapporto di parentela che si consolida emotivamente e legalmente, indipendentemente dal vincolo genetico, tra genitore e prole e che consente l’adozione del partner, consentita in: Danimarca, Belgio, Francia, Germania, Finlandia, Islanda, Irlanda, Svezia, Spagna, Olanda, Norvegia, Regno Unito), nonché dell’adozione da parte di coppie dello stesso sesso (Regno Unito, Belgio, Danimarca, Islanda, Olanda, Andorra, Norvegia, Spagna Svezia), e da parte del/la singolo/a persona omosessuale (Germania, Francia, Belgio, Estonia, Danimarca, Portogallo, Polonia, Finlandia, Islanda, Svezia, Spagna, Norvegia, Regno Unito).
Lo stesso accade, fuori dall’Europa, in Sud Africa, in Canada, in sette Stati degli Stati Uniti d’America e in alcuni degli Stati federati messicani, in Argentina e in Brasile. Inoltre, l’attuale presidente degli Stati Uniti d’America si è detto favorevole all’estensione del matrimonio ugualitario all’intera federazione e svariati altri Paesi nel mondo si muovono nella direzione dell’apertura del matrimonio in senso egualitario, tra di essi la Francia e la Gran Bretagna, i cui parlamenti hanno già votato favorevolmente sui principi generali delle proposte di legge presentate e che saranno approvate definitivamente entro alcuni mesi. Si tratta, evidentemente, di un processo globale di sviluppo della civiltà e del diritto, che – ancorché recente e lento- appare inarrestabile.
In Italia il dibattito politico su questi temi è rimasto ancorato a posizioni ideologiche, che non tengono conto né dell’esperienza, rappresentata da un numero sempre crescente di persone omosessuali che portano fuori dall’invisibilità giuridica le loro relazioni affettive, le loro famiglie e i loro figli, né dell’elaborazione giurisprudenziale intervenuta negli ultimi anni, a livello nazionale e europeo.
La vita di coppia è alla base dell’organizzazione della famiglia che, come ha avuto modo di affermare la Corte costituzionale nella sentenza n. 138 del 2010, non costituisce una struttura cristallizzata, ma si modifica di pari passo alle trasformazioni della società, dei costumi e dell’ordinamento giuridico. La famiglia, così come il matrimonio, costituiscono istituti duttili che pur menzionati nella Costituzione, la sociologia e l’antropologia ci raccontano mutevoli nel tempo e nello spazio.
Nella società e nel diritto italiano, famiglia e matrimonio sono cambiate radicalmente nel volgere di pochi decenni, passando attraverso l’affermazione della competenza statale e non religiosa sul matrimonio, l’uguaglianza giuridica dei coniugi, la dissolubilità del vincolo, l’eguaglianza giuridica dei figli nati dentro e fuori il matrimonio, di recente regolata, la protezione contro le violenze domestiche etc.. In definitiva, il diritto vigente ha dovuto modificarsi radicalmente per adeguare il matrimonio alle modificazioni nel frattempo determinatesi nella società e nelle relazioni familiari.
La duttilità umana e sociale della famiglia italiana è confermata anche dai dati diffusi dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), che descrive modelli e strutture che sono cambiati e si sono moltiplicati. Sono rilevate, per esempio, le famiglie senza figli, quelle biparentali e monoparentali, ricostruite, allargate, coniugate oppure di fatto. Si tratta di modelli familiari non irrilevanti o occasionali, ma che sono ricorrenti e hanno sovente carattere di stabilità. Nel rapporto 2011 «Come cambiano le forme familiari» (relativo all’anno 2009), l’ISTAT ha confermato che le nuove forme familiari continuano a crescere: sono 6.866.000 mila i single non vedovi, i monogenitori non vedovi, le coppie non coniugate e le famiglie ricostituite coniugate. Vivono in queste famiglie 12 milioni di persone, il 20 per cento della popolazione, dato quasi raddoppiato rispetto al 1998. Nel «Rapporto sulla coesione sociale 2012», lo stesso istituto ha analizzato le tipologie familiari mostrando che nel 2010 il 28,4 per cento delle famiglie è rappresentato da persone sole, con una incidenza percentuale in continua crescita. Subisce una flessione, invece, l’incidenza delle coppie con figli, passando dal 62,4 per cento del 1995 al 55,3 per cento del 2010, a cui corrisponde un andamento crescente della percentuale delle coppie senza figli e dei monogenitori. Il numero di matrimoni celebrati continua a diminuire (16 mila in meno nel 2009 e quasi 13 mila in meno in ciascuno degli anni precedenti nel 2010 e nel 2011), mentre crescono i matrimoni celebrati con rito civile, i quali rappresentano quasi il 40 per cento del totale nel 2011 (80 mila, contro i 124 mila religiosi), triplicati rispetto al 1980. Crescono anche le coppie di fatto, arrivate a 972.000 nel biennio 201-2011 (quasi il 6,5 per cento sul totale delle coppie). In tale contesto, l’espressione «famiglia» deve essere declinata al plurale per essere rappresentativa della realtà.
Nel quadro statistico che si è illustrato le famiglie formate da persone dello stesso sesso non sono per nulla prese in considerazione. Esse non furono rilevate dal censimento del 2001, perché ritenute non conferenti per le finalità della raccolta e perché -si disse- sarebbe mancata, nel regolamento di esecuzione del censimento, un’autorizzazione ad hoc per il trattamento di dati ritenuti sensibili. Nel corso del censimento 2011, invece, i dati relativi alle coppie same sex sono stati finalmente censiti, nonostante un intervento del Garante per la protezione dei dati personali abbia impedito che nel questionario ci fosse un esplicito riferimento alla convivenza in coppia formata da persone dello stesso sesso.
Di questa prima rilevazione ancora non si conoscono i risultati, ma è probabile che non restituisca il numero reale delle famiglie omosessuali residenti in Italia, dal momento che esse vivono ancora fortemente un problema di visibilità legato alla percezione dello stigma sociale. Tuttavia, quale che sia il numero, si tratterà di un dato utilissimo.
Negli Stati Uniti d’America, ad esempio, è successo che durante il primo censimento (2000) che ha rilevato le famiglie costituite da persone dello stesso sesso, si siano dichiarate solo la metà delle famiglie che si è dichiarato nel censimento successivo. Quest’ultimo (2010) ha rilevato circa 650.000 coppie (il 51 per cento formato da due donne, il 49 per cento da due uomini); di queste coppie 131.729 hanno dichiarato di essere sposate e 115.064 di avere figli minorenni. Tutte insieme rappresentano solo lo 0,5 per cento della popolazione, ma è un dato di estrema rilevanza. Esso testimonia con certezza l’esistenza di famiglie costituite da una minoranza sociale, verso la quale la maggioranza ha il dovere e la necessità di attivarsi per realizzare parità di diritti personali e familiari.
Anche la prima ricerca statistica mai condotta in Italia sulla popolazione omosessuale (ISTAT 2012) ha fatto emergere che circa un milione di persone dichiara di essere lesbica, gay o bisessuale (circa il 2,4 per cento della popolazione residente), mentre il 15,6 per cento non ha fornito nessuna risposta al quesito sull’orientamento sessuale. Come rilevato dall’ISTAT, si può ragionevolmente arguire che il numero della popolazione omosessuale e bisessuale italiana sia significativamente più alto rispetto al milione di persone che ha voluto dichiarare di esserlo. Tra gli altri dati è emerso che il 61,3 per cento dei cittadini tra i 18 e i 74 anni di età ritiene che in Italia gli omosessuali sono molto o abbastanza discriminati e il 43,9 per cento è d’accordo con l’affermazione che è giusto che una coppia omosessuale si sposi se lo desidera.
Oggi in Italia il mancato accesso al matrimonio costringe molte coppie omosessuali, che rappresentano una realtà di fatto senza alcuna regolamentazione giuridica, a recarsi all’estero per potersi sposare.
La presente proposta di legge intende superare tale stato di cose, rendendo il matrimonio accessibile anche alle coppie formate da persone dello stesso sesso, nel solco di una mutata coscienza sociale e, soprattutto, dei principi della Costituzione, che affermano l’uguaglianza e la pari dignità delle persone, il divieto di discriminazione, la promozione e la tutela dei diritti fondamentali della persona in tutte le formazioni sociali in cui svolge la sua personalità.
Invero, l’elaborazione giurisprudenziale della Corte costituzionale ha ricondotto la famiglia omosessuale tra le formazioni sociali riconosciute e garantite dall’articolo 2 della Costituzione riconoscendo che «l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso», ha «il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri», specificando che il Parlamento deve «individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette» (sentenza n. 138 del 2010). La Corte ha indicato al Parlamento la possibilità di optare nella scelta della regolamentazione tra l’apertura del matrimonio o l’introduzione di una diversa regolamentazione, aggiungendo inoltre che è possibile riscontrare la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, in relazione ad ipotesi particolari, anche in assenza di un intervento legislativo, mediante un controllo di ragionevolezza riservato ai giudici.
Fino ad oggi, però, il Parlamento non ha raccolto l’invito proveniente dalla Corte costituzionale, cosicché nell’attuale quadro normativo, mentre alle famiglie formate da un uomo e da una donna è consentita la scelta tra l’accesso al matrimonio e la possibilità di rimanere una realtà di fatto, alle famiglie formate da due uomini o da due donne non è consentito optare nessuna scelta.
È importante sottolineare che questa diversità di trattamento giuridico è stabilita unicamente in base ad una caratteristica personale, qual è l’orientamento sessuale, che l’articolo 3 della Costituzione impedisce di prendere come elemento di discriminazione normativa tra le persone.
Pertanto, in ambito familiare, la legge continua a dare rilevanza e dignità sociali unicamente all’orientamento eterosessuale e non a quello omosessuale. Questo è un pregiudizio antico non più tollerabile da parte dello Stato e che la presente proposta di legge intende rimuovere consentendo l’accesso al matrimonio civile alle persone omosessuali. Non operare questa apertura avrebbe il significato di tollerare il pregiudizio e la discriminazione in relazione ad un diritto, quello di sposarsi, che la Costituzione e le convenzioni internazionali inseriscono tra quelli fondamentali.
La libertà di contrarre matrimonio costituisce un diritto fondamentale della persona nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948 (articolo 16), nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950, resa esecutiva dalla legge n. 848 del 1955 (articolo 12) e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 12 dicembre 2009 (articolo 9).
In particolare, la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), nella sentenza del 24 giugno 2010 Shark and Kopf contro Austria, successiva alla sentenza della Corte costituzionale, ha considerato «artificiale sostenere l’opinione che, a differenza di una coppia eterosessuale, una coppia omosessuale non possa godere della “vita familiare” ai fini dell’articolo 8» della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e che «conseguentemente la relazione dei ricorrenti, una coppia omosessuale convivente con una stabile relazione di fatto, rientra nella nozione di “vita familiare”, proprio come vi rientrerebbe la relazione di una coppia eterosessuale nella stessa situazione». La Corte ha anche compiuto un revirement interpretativo dell’articolo 12 della Convenzione dichiarando che esso potrà essere considerato – alla luce dell’articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – come fonte di protezione del matrimonio tra persone dello stesso sesso.
La stessa Corte di cassazione, nella sentenza n. 4184 del 15 marzo 2012, riprendendo i contenuti delle già richiamate sentenze della Corte costituzionale e della CEDU, ha concluso che che il matrimonio contratto all’estero tra due persone dello stesso sesso non è inesistente per il nostro ordinamento, come invece fino ad allora è stato creduto, ma è incapace di produrre effetti in Italia, a causa dell’assenza di una disciplina matrimoniale posta dal nostro legislatore a favore delle coppie omosessuali. Tuttavia, secondo la Cassazione, «I componenti della coppia omosessuale, conviventi in stabile relazione di fatto», se in assenza di una legislazione italiana «non possono far valere né il diritto a contrarre matrimonio né il diritto alla trascrizione del matrimonio contratto all’estero, tuttavia – a prescindere dall’intervento del legislatore in materia –, quali titolari del diritto alla “vita familiare” e nell’esercizio del diritto inviolabile di vivere liberamente una condizione di coppia e del diritto alla tutela giurisdizionale di specifiche situazioni, segnatamente alla tutela di altri diritti fondamentali, possono adire i giudici comuni per far valere, in presenza appunto di “specifiche situazioni”, il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata» (punto 4.2 della sentenza).
Nella situazione attuale, la giurisprudenza, interpretando il diritto vigente, ha riconosciuto alle persone gay e lesbiche, alle loro famiglie e ai loro figli la dignità e la rilevanza sociale che gli competono, ricavandole dalla Costituzione e dalla Convenzione europea per i diritti umani. La presente legge, consentendo alle coppie omosessuali di contrarre matrimonio, si pone come chiave di volta di una fioritura giuridica a favore dei diritti di una minoranza.
Peraltro, il matrimonio egualitario non reca alcun pregiudizio alle famiglie eterosessuali fondate sul matrimonio, ma paradossalmente si rivela una scelta tanto innovativa quanto conservatrice che rafforza l’istituto matrimoniale, come strumento in grado di promuovere l’uguaglianza e la valorizzazione della persona, come è stato in passato quando si è affermata la libertà di scelta del coniuge, la parità tra i coniugi o quando è stato eliminato il divieto di celebrare matrimoni interrazziali.
In assenza di esigenze di salvaguardia di valori costituzionali contro cui agirebbe il matrimonio egualitario, non è possibile ammettere un limite al diritto di contrarre matrimonio da parte delle persone omosessuali.
Non è di poca rilevanza costituzionale, inoltre, l’esigenza di assicurare ai figli nati all’interno di famiglie formate da due persone dello sesso, la possibilità che entrambi i suoi genitori siano riconosciuti come tale, per legge, e non solo quello biologico, con i rischi a cui andrebbe incontro se quest’ultimo venisse a mancare.
A tal proposito, diverse ricerche condotte in Italia hanno provato che un numero niente affatto trascurabile di persone gay e lesbiche sono anche padri o madri: sarebbero circa il 20 per cento. Ci sono famiglie con una o due madri lesbiche o uno o due padri gay, a seconda che la genitorialità sia frutto di un progetto di filiazione della coppia oppure che il minore sia accolto dalla coppia dopo una separazione eterosessuale di uno dei due partner.
La capacità genitoriale delle persone omosessuali è stata più volte attestata dalla giurisprudenza italiana. Il tribunale di Napoli ha affermato: «Nella separazione personale la condizione omosessuale di un coniuge, come le relazioni omosessuali da queste intraprese, sono di per sé irrilevanti, quanto alla valutazione dell’idoneità genitoriale del coniuge stesso, e alle determinazioni circa l’affidamento dei figli minori» (sentenza del 28 giugno 2006, confermata dalla Corte d’appello di Napoli, 11 aprile 2007, riconfermata dalla Cassazione civile, sezione I, 18 giugno 2008, n. 16593). Nello stesso modo si sono espressi i tribunali di Bologna, di Catanzaro, di Firenze ed altri (tribunale di Bologna, decreto del 7 luglio 2008; tribunale per i minorenni di Catanzaro, obiter dictum al decreto del 27 maggio 2008; tribunale di Firenze, decreto del 10-30 aprile 2009). Questo orientamento consolidato è stato confermato ulteriormente dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 601 del 2013, la quale ha ritenuto che l’affermazione dell’eventuale dannosità della crescita di un minore all’interno di un nucleo familiare omosessuale deve essere provata, altrimenti si risolve in un pregiudizio (“non sono poste certezze scientifiche o dati di esperienza, bensì il mero pregiudizio che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale”).
Anche le Corti internazionali hanno condannato il mancato riconoscimento della capacità genitoriale alle persone omosessuali. Nella sentenza del 21 dicembre 1999, caso Salgueiro da Silva Mouta v. Portogallo, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato il Portogallo per aver negato a un padre la possibilità di educare sua figlia unicamente perché omosessuale. La stessa Corte, nella sentenza del 22 gennaio 2008, ha condannato la Francia per non aver ammesso all’adozione una donna single perché lesbica. Secondo la Corte si è trattato di un trattamento discriminatorio dal momento che in Francia i single possono adottare.
Le preoccupazioni che in genere vengono espresse rispetto ai figli riguardano la paura che i genitori omosessuali possano condizionarne l’orientamento sessuale, il timore che possano avere una maggiore predisposizione a disturbi comportamentali o mentali, o che possano avere maggiori difficoltà nelle relazioni sociali a causa dello stigma che colpisce le loro famiglie. Si tratta di timori e paure che non hanno basi empiriche, dal momento che tutte le ricerche condotte a livello internazionale sui figli cresciuti in famiglie omogenitoriali hanno sempre accertato che non esistono differenze significative tra loro e i figli cresciuti da coppie eterosessuali e che non vi sono dubbi che l’orientamento sessuale dei genitori non incide negativamente sullo sviluppo psico-fisico dei minori, condizionato invece dalla crescita in un ambiente sano e solidale. Numerosi studi condotti dall’American Psychological Association, American Psychiatric Association, American Academy of Pediatrics, e altri gruppi non hanno evidenziato alcuna differenza, neppure minima, negli effetti dell’omogenitorialità rispetto alla genitorialità eterosessuale. L’American Psychological Association nel Luglio 2004 ha dichiarato che non esiste alcuna prova scientifica che l’essere dei buoni genitori sia connesso all’orientamento sessuale dei genitori medesimi: genitori dello stesso sesso hanno la stessa probabilità di quelli eterosessuali di fornire ai loro figli un ambiente di crescita sano e favorevole. La ricerca ha dimostrato che la stabilità, lo sviluppo e la salute psicologica dei bambini non ha collegamento con l’orientamento sessuale dei genitori, e che i bambini allevati da coppie gay e lesbiche hanno la stessa probabilità di crescere bene quanto quelli allevati da coppie eterosessuali.
In questi termini si è espressa, nel 2005, anche l’Organizzazione degli psichiatri americani (APA) che ha approvato un documento a favore dell’estensione del matrimonio civile alle coppie omosessuali. L’omogenitorialità viene supportata anche dal Child Welfare League of America, dal National Association of Social Workers, dal North American Council on Adoptable Children, dall’American Academy of Pediatrics e dall’American Academy of Family Physicians. Analogamente, una relazione fatta dal Department of Justice (Canada) sullo Sviluppo delle abilità sociali dei bambini attraverso i vari tipi di famiglia del Luglio 2006 e rilasciata successivamente dal Governo Canadese nel Maggio 2006, ha dichiarato che “la gran parte degli studi mostrano che i bambini che vivono con 2 madri e i bambini che vivono con un padre ed una madre hanno lo stesso livello di competenza sociale. Pochi studi suggeriscono che i bambini con madri lesbiche potrebbe avere una migliore competenza sociale, ancora meno studi dimostrano l’opposto, ma la maggior parte degli studi fallisce nel trovare qualsiasi differenza. Anche le ricerche condotte su bambini con due padri supportano queste conclusioni”. Inoltre uno studio dell’American Civil Liberties Union sostiene che la maggior parte degli studi comparati sociologici indicano che i bambini cresciuti in famiglie omogenitoriali sono “relativamente normali”.Quando si compara questi bambini con quelli di genitori eterosessuali, non si nota alcuna differenza “nelle valutazioni di popolarità, nell’adeguamento sociale, nei comportamenti di ruoli di genere, identità di genere, intelligenza, coscienza di sé, problemi emotivi, propensione al matrimonio e alla genitorialità, sviluppo morale, indipendenza, nelle funzioni del sé, nelle relazioni con gli oggetti o autostima”.
Le paure, purtroppo, sono determinate solo da stereotipi culturali, rafforzati da ignoranza o da posizioni ideologiche, che vedono le persone omosessuali come predatori e potenzialmente dannosi per i bambini. Con la presente legge l’omogenitorialità e i figli di persone omosessuali trovano finalmente una regolamentazione, a beneficio loro e dell’intera società.
Di seguito si illustra il contenuto degli articoli della presente legge.
L’articolo 1 stabilisce che il matrimonio può essere contratto tra due persone di sesso diverso o dello stesso sesso, introducendo il principio che il matrimonio è egualitario, nei requisiti e negli effetti, indipendentemente dal sesso delle persone che lo contraggono. Simbolicamente, questo principio viene inserito all’articolo 91 del Codice civile che originariamente conteneva il divieto di contrarre matrimonio tra ‘razze’ e nazionalità diverse, rifacendosi a leggi speciali in vigore fino al 1944. In base ad esse, infatti, veniva proibito «il matrimonio del cittadino italiano di razza ariana con persona appartenente ad altra razza» e, se celebrato, lo si dichiarava nullo. Invece, il matrimonio del cittadino italiano con persona di nazionalità straniera veniva subordinato al preventivo consenso del Ministero per l’interno, prevedendo, in caso di violazione della disposizione, la pena dell’arresto fino a tre mesi e l’ammenda fino a lire diecimila.
L’articolo 2 modifica alcune disposizioni dei codici civile e di procedura civile al fine di adeguarle al principio del matrimonio egualitario. In particolare, sono sostituite le parole “marito e moglie” con quella di «coniuge». Merita ricordare che la parola coniuge, al singolare o al plurale, è utilizzata già numerose volte nei predetti codici e ricorre molto più frequentemente delle parole marito e moglie. Da un punto di vista sostanziale, l’articolo 2 interviene anche a modificare la disciplina del cognome dei coniugi e dei figli, modificando l’ordinamento dello stato civile,
Nello specifico, i commi 1 e 2 sostituiscono le parole «in marito e in moglie» con «come coniugi» negli articoli 107, primo comma e 108, primo comma, che disciplinano, rispettivamente, la forma del matrimonio e l’inopponibilità di termini e condizioni alla dichiarazione degli sposi di prendersi come coniugi. Nell’articolo 108, inoltre, l’avverbio «rispettivamente», riferito al prendersi come marito e moglie, è sostituito con «reciprocamente», riferito ora al prendersi come coniugi.
Il comma 3 modifica l’articolo 143 che disciplina i diritti e doveri reciproci dei coniugi, sostituendo al comma 1 dell’articolo le parole «il marito e la moglie» con «i coniugi, indipendentemente dal sesso,».
I commi 4, 5, 6, 8 e 10 introducono una nuova disciplina dei cognomi, stabilendo che ogni persona abbia il doppio cognome. In tal modo i coniugi hanno la possibilità di scegliere di assumere un cognome comune al momento del matrimonio, abrogando la vecchia disposizione che impone alla sola moglie l’aggiunta al proprio del cognome del marito; e al contempo consente ad entrambi i genitori di trasmettere il cognome ai figli. La Corte costituzionale ha avuto modo di intervenire più volte in materia di cognome dei figli e , da ultimo nella decisione n. 61 del 2006, ha rilevato che l’attribuzione ai figli, in ogni caso, del solo cognome paterno è retaggio di una concezione patriarcale, in grado di discriminare le madri e le donne.
La scelta di modificare le regole sul cognome nell’ambito della presente legge, quindi, opera nel senso di rendere più egualitario il matrimonio anche con riferimento al genere.
In particolare, il comma 4 sostituisce l’articolo 143-bis del codice civile stabilendo che i coniugi, al momento del matrimonio, possono conservare ciascuno i propri cognomi o possono adottare un cognome comune della famiglia, formato dall’unione di un cognome dell’uno con un cognome dell’altro, disposti nell’ordine che essi sceglieranno. Tale regola consente ad ogni persone di avere sempre due cognomi. Il nuovo articolo 143-bis dispone, inoltre, che ciascuno dei coniugi conserva il cognome comune durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze e che si perda in caso di divorzio.
Il comma 5 abroga l’articolo 156-bis del codice civile, recante disposizioni in materia di divieto dell’utilizzo del cognome del marito da parte della moglie, nel corso della separazione, quando ne possa derivare un pregiudizio.
Il comma 6 sostituisce l’articolo 33 del Decreto del Presidente della Repubblica del 3 novembre 2000, n. 396, recante il regolamento dello stato civile, che già conteneva disposizioni sul cognome. La nuova regola generale consenti a tutti di avere un doppio cognome, tranne che la legge non disponga diversamente, come può darsi nel caso di persone che abbiano, già oggi, più di due cognomi. Il doppio cognome viene composto dall’unione di uno dei cognomi di ciascun genitore o dal cognome comune che i genitori hanno dato alla famiglia al momento del matrimonio. In questo modo ai figli è sempre trasmessa una parte del cognome di entrambi i genitori. Si stabilisce che l’ordine dei cognomi stabilito per il primo figlio è mantenuto anche per i successivi.
Nel caso in cui i genitori abbiano trasmesso ai figli il cognome comune assunto con il matrimonio, si stabilisce che in caso di divorzio il cognome dei figli non subisca modifiche, mentre i genitori perdono il cognome comune.
Viene inoltre previsto che le disposizioni in materia di cognome dei figli si applichino anche in caso di adozione o di figli di cui non si conoscano i genitori. In quest’ultimo caso, l’ufficiale dello stato civile impone al nato due cognomi, in modo che il cognome non sia in grado di rivelare la condizione della persona.
Invece, nel caso in cui il cognome del genitore subisca cambiamenti o modifiche, nei casi previsti dalla legge, il figlio maggiorenne può scegliere, entro un anno, di mantenere il cognome portato precedentemente, a garanzia della tutela del diritto al nome. Le stesse regole si applicano nel caso di un figlio che venga riconosciuto dopo il compimento della maggiore età, che può altresì scegliere di modificare il proprio cognome, assumendo i cognomi dei genitori che lo hanno riconosciuto.
Il comma 7 sostituisce nell’articolo 237, secondo comma, punto primo, del codice civile le parole: «del padre» con: «dei genitori». L’articolo elenca i fatti che devono ricorrere per dimostrare la relazione di filiazione e di parentela fra una persona e la famiglia cui essa pretende di appartenere.
Il comma 8 interviene in materia di riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio, modificando le disposizioni che riguardano il cognome. In particolare, viene sostituito l’articolo 262 del codice civile, prevedendo che il figlio assuma i cognomi del genitore che per primo lo ha riconosciuto, o di entrambi i genitori nel caso il riconoscimento sia effettuato contemporaneamente. Se la filiazione nei confronti di uno dei genitori viene accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte dell’altro, il figlio può assumere anche il cognome del secondo genitore, applicando le disposizioni contenuto dall’articolo 250 del codice civile. Pertanto, fatto salvo il principio che non consente di rifiutare il consenso al riconoscimento se risponde all’interesse del figlio, il figlio che abbia compiuto i quattordici anni dovrà dare personalmente il suo assenso alla modifica del cognome, mentre nel caso abbia un’età inferiore il consenso spetta al genitore che abbia già effettuato il riconoscimento.
I commi 9 e 10 intervengono in materia di adozione tra maggiorenni. Il comma 9 sostituisce nell’articolo 294 il riferimento a “marito e moglie”, con riferimento al divieto di adozione da parte di più di una persona, salvo che i due adottanti siano marito e moglie, con quello ai “coniugi”. Il comma 10, invece, dispone che, in materia di cognome, l’adottato maggiorenne perda uno dei suoi cognomi, a sua scelta, e assuma uno dei cognomi dell’adottante o, se coniugi, degli adottanti. L’adottato deve indicare quale cognome intende assumere, prima di prestare il consenso all’adozione.
Il comma 11 modifica il codice di procedura civile, in materia di astensione del giudice, sostituendo all’articolo 51, primo comma, numeri 2) e 3), il riferimento alla moglie con quello al coniuge.
L’articolo 3 disciplina la filiazione tra persone dello stesso sesso, favorendo l’interesse del minore ad avere entrambi i genitori e la genitorialità delle persone omosessuali.
Il comma 1 aggiunge al Titolo VII del primo Libro del Codice civile, il Capo I-bis, composto dal solo articolo 249-bis, che disciplina la filiazione tra persone dello stesso sesso coniugate. L’articolo dispone che il coniuge dello stesso sesso è considerato genitore del figlio dell’altro coniuge fin dal momento del concepimento in costanza di matrimonio, anche quando il concepimento avviene mediante il ricorso a tecniche di riproduzione medicalmente assistita, inclusa la maternità surrogata.
Il comma 2 consente di risolvere il problema dei numerosi figli già nati facendo ricorso a tecniche di riproduzione medicalmente assistita da parte di coppie di persone dello stesso sesso coniugate prima dell’entrata in vigore della presente legge. Attualmente, la legge considera che tali figli abbiano solo il genitore biologico, mentre non viene riconosciuta nessuna relazione giuridica parentale con la persona coniugata al genitore naturale. La disposizione tutela l’interesse del figlio ad avere entrambi i genitori e di far salva la scelta di genitorialità condivisa da parte dei coniugi.
Il comma 3 è una disposizione transitoria che consente di ovviare alla disparità di trattamento che si produrrebbe nel caso di figli già nati facendo ricorso a tecniche di riproduzione medicalmente assistita da parte di coppie di persone dello stesso sesso che non abbiano contratto matrimonio prima dell’entrata in vigore della presente legge. Prevede che, analogamente a quanto previsto dal comma 2 il figlio concepito nell’ambito del rapporto di coppia possa essere riconosciuto come figlio dal partner del genitore biologico, qualora il genitore biologico e il partner contraggano matrimonio entro 18 mesi dall’entrata in vigore della presente legge.
Infine, stante la permanenza in vigore della legge n. 40 del 2004, in materia di procreazione medicalmente assistita nei casi di sterilità o infertilità umana, il comma 4 dispone alcune modifiche per consentire l’accesso ad esse, anche in Italia, da parte delle coppie dello stesso sesso e operare un coordinamento. In particolare, l’articolo 3, comma 4, dispone l’abrogazione delle parti della legge 40 che dispongono il divieto di accesso alle tecniche di procreazione assistita da parte delle coppie dello stesso sesso e il divieto di ricorso a tecniche di tipo eterologo. Inoltre, per consentire anche il ricorso alla maternità surrogata, si abroga il divieto di dichiarare la volontà di non essere nominata, imposto alla donna che faccia nascere un figlio a seguito dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita.
L’articolo 4 contiene le disposizioni finali.
Il comma 1 contiene una disposizione generale con la quale si precisa che tutte le disposizioni in materia di matrimonio e adozione, dovunque ricorrano, si applicano indipendentemente dal sesso dei coniugi, tranne che non sia previsto diversamente in maniera espressa.
Il comma 2 contiene un’ulteriore disposizione generale con la quale si precisa che le parole marito e moglie, dovunque ricorrano, sono da intendersi riferite ai coniugi, senza distinzione di sesso, ad eccezione di quelle disposizioni espressamente introdotte per eliminare la disparità di trattamento tra uomo e donna.
Il comma 3 dispone che le amministrazioni pubbliche procedano a modificare le espressioni marito e moglie in «coniuge» o «coniugi» dovunque ricorrano nella modulistica, nei certificati e nei siti web.
Il comma 4 dispone che i matrimoni già contratti all’estero tra persone dello stesso sesso possono essere trascritti in Italia, con efficacia dal momento della loro celebrazione.
I commi 5 e 6, infine, contengono disposizioni in materia di cognome. Il comma 5 consente a chi è già nato al momento della data in vigore della presente legge di aggiungere il cognome della madre a quello del padre. Questa disposizione non è transitoria, potendosi in qualsiasi momento avanzare richiesta di modifica del proprio cognome. Tuttavia, per assicurare una necessaria uniformità di applicazione della regola, viene prevista solo la possibilità di aggiungere il cognome della madre a quella del padre e non, ad esempio, il contrario.
Il comma 6, invece, contiene una disposizione transitoria, che consente ai coniugi che abbiano contratto matrimonio prima della data di entrata in vigore della presente legge, di dichiarare, entro un anno, la volontà di assumere un cognome comune. In tale caso anche il cognome dei figli minori verrà modificato, mentre i figli maggiorenni seguiranno, se lo ritengono opportuno, la regola contenuta nel precedente comma 5.
Infine, la presente legge non determina nuovi oneri a carico della finanza pubblica. Si osserva, infatti, che per la “nuova anagrafe”, relativa alla registrazione dei matrimoni e all’introduzione dei doppi cognomi, i costi rientrano nelle spese generali delle pubbliche amministrazioni. In particolare, esistendo già oggi la possibilità legale di avere un doppio cognome, la modulistica, i software e i data base già sono costruiti per consentire questa possibilità.
Un aspetto più problematico riguarda il diritto alla pensione indiretta e a quella di reversibilità, ma anche in questo caso riteniamo di non dover conteggiare costi aggiuntivi. Va messo in evidenza, innanzitutto, che le pensioni indirette e di reversibilità costituiscono misure previdenziali e non assistenziali a carico della finanza pubblica.
Nelle statistiche attuariali – che determinano il valore dei contributi richiesti a tutti gli iscritti delle diverse forme previdenziali anche per coprire gli oneri relativi alle pensioni indirette e di reversibilità – sono già incluse le percentuali generali dei matrimoni, nelle quali non incidono i prevedibili matrimoni omosessuali, il cui numero è equivalente al calo annuale del numero degli sposalizi tra persone eterosessuali specie negli ultimi anni (1972: 392mila; 2009: 231mila; 2010: 217mila; 2012: 205mila).
In Spagna, “a regime” (cioè dopo i primi due anni, 2005 e 2006, che hanno, per così dire, “smaltito” l’arretrato) i matrimoni omosessuali sono circa 3.900 l’anno. Facendo le debite proporzioni tra la popolazione spagnola (circa 49 milioni ) e quella italiana (60 milioni), si può ipotizzare un numero annuo a regime di matrimoni tra persone omosessuali pari a circa 5.000 unità.
Da ultimo, osserviamo come le pensioni di reversibilità per il coniuge omosessuale avranno un costo medio minore di quelle per il coniuge eterosessuale. Infatti, le statistiche indicano che la vita media del coniuge di sesso maschile superstite è inferiore a quella del coniuge di sesso femminile, pertanto nelle coppie omosessuali maschili, il coniuge superstite percepirà la reversibilità per un periodo mediamente inferiore alla media. Invece, per quanto concerne le coppie omosessuali femminili, vale la stessa osservazione ma sulla base del presupposto esattamente opposto: essendo più alta l’aspettativa femminile di vita media, minore sarà mediamente il periodo durante il quale si dovrà erogare la pensione di reversibilità al coniuge superstite.
Art. 1.
(Matrimonio egualitario)
Art. 2.
(Modifiche al Codice civile, al Codice di procedura civile e all’ordinamento dello stato civile)
1. All’articolo 107, primo comma del codice civile, le parole: «in marito e in moglie» sono sostituite dalle seguenti: «come coniugi».
2. All’articolo 108, primo comma, del codice civile, le parole: «rispettivamente in marito e in moglie» sono sostituite dalle seguenti: «reciprocamente come coniugi».
3. All’articolo 143, primo comma, del codice civile, le parole: «il marito e la moglie» sono sostituite dalle seguenti: «i coniugi, indipendentemente dal sesso,».
4. L’articolo 143-bis del codice civile è sostituito dal seguente:
«Art. 143-bis. – (Cognome dei coniugi). – I coniugi possono conservare i propri cognomi o adottare un cognome comune formato dall’unione di uno dei due cognomi dell’uno con uno dei due dell’altro. Ciascuno dei coniugi conserva il cognome comune durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze. Il cognome comune si perde in caso di divorzio».
5. L’articolo 156-bis del codice civile è abrogato.
6. L’articolo 33 del Decreto del Presidente della Repubblica del 3 novembre 2000, n. 396 è sostituito dal seguente:
«Art. 33 – (Disposizioni sul cognome). 1. Salvo che la legge disponga diversamente, ad ogni persona sono attribuiti due cognomi.
2. Nella dichiarazione di nascita ciascun genitore trasmette al figlio uno dei suoi cognomi, attribuiti nell’ordine da essi stabilito.
3. In caso di disaccordo tra i genitori o di mancata indicazione, da qualsiasi causa determinata, i figli acquistano il primo cognome di ciascun genitore, disposti in ordine alfabetico.
4. L’ordine dei cognomi stabilito per il primo figlio è mantenuto anche per i successivi.
5. I genitori che con il matrimonio abbiano assunto un cognome comune trasmettono quest’ultimo ai figli. Il divorzio dei genitori non provoca modifiche al cognome dei figli.
6. Le disposizioni di cui ai commi precedenti si applicano anche in caso di adozione.
7. Quando si tratta di bambini di cui non sono conosciuti i genitori, l’ufficiale dello stato civile impone ad essi due cognomi.
8. Il figlio maggiorenne che subisce il cambiamento o la modifica del proprio cognome a seguito della variazione di quello del genitore da cui il cognome deriva, nonché il figlio di ignoti riconosciuto, dopo il raggiungimento della maggiore età, da uno dei genitori o contemporaneamente da entrambi può scegliere, entro un anno dal giorno in cui ne viene a conoscenza, di mantenere il cognome portato precedentemente, se diverso, ovvero di modificarlo assumendo i cognomi dei genitori che lo hanno riconosciuto.
9. Le dichiarazioni di cui ai comma 8 sono rese all’ufficiale dello stato civile del comune di nascita dal figlio personalmente o con comunicazione scritta. Esse vengono annotate nell’atto di nascita del figlio medesimo».
7. All’articolo 237, secondo comma, punto primo, le parole: «del padre» sono sostituite dalle seguenti: «dei genitori».
8. L’articolo 262 del codice civile è sostituito dal seguente:
«Art. 262 (Cognome del figlio). Il figlio nato fuori dal matrimonio assume i cognomi del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori assume i cognomi di entrambi.
Se la filiazione nei confronti di uno dei genitori è stata accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte dell’altro, il figlio può assumere anche il cognome dell’altro genitore, secondo quanto disposto dall’articolo 250».
9. All’articolo 294, secondo comma, del codice civile, le parole: «marito e moglie» sono sostituite dalle seguenti: «coniugi».
10. L’articolo 299 del codice civile è sostituito dal seguente:
«Art. 299 (Cognome dell’adottato). L’adottato perde uno dei suoi cognomi, a sua scelta, e assume uno dei cognomi dell’adottante o, se coniugi, degli adottanti.
L’adottato, prima di prestare il consenso all’adozione, indica quale cognome intende assumere».
11. All’articolo 51, primo comma, numeri 2) e 3), del codice di procedura civile, le parole: «o la moglie» sono sostituite dalle seguenti: «o il coniuge».
Art. 3.
(Della filiazione tra persone dello stesso sesso)
Art. 4.
(Disposizioni transitorie e finali)