Login

Signup

DI.CO. VOBIS GAUDIUM MAGNUM…HABEMUS LEGEM!

6 Settembre 2008

Dunque, da dove iniziare? L’ambiguità è spesso frutto dell’ipocrisia. La legge francese era ambigua perché nasceva da una ipocrisia di fondo: in altre parole dall’intento di disciplinare rapporti affettivi con un istituto contrattuale che era stato costruito per disciplinare rapporti patrimoniali. Ben presto la giurisprudenza si è trovata in difficoltà, e nell’incertezza, più e più volte ha scelto di estendere ai conviventi “pacsati” le norme che regolano il matrimonio.

 

In primo luogo la proposta di legge italiana ha rifiutato in modo sistematico il ricorso alla previsione di un istituto o di un meccanismo di registrazione. Non soltanto: si è respinta anche l’ipotesi del ricorso a una dichiarazione nella forma dell’atto pubblico, quand’anche tramite una sterile procedura notarile o innanzi all’ufficiale di stato civile.

Nonostante quanto sostenuto, o meglio negato dalla Ministra Bonino, questa è la prima dimostrazione che si tratta proprio della legge di Ruini.

Certamente non quella di Zapatero, su questo ci troviamo d’accordo. E neppure quella di Aznar o di Sarkozy. Questa è la legge di Ruini.

 

I conviventi, al senso della proposta, sono due persone maggiorenni unite da reciproci vincoli affettivi che convivono stabilmente e si prestano assistenza e solidarietà morale e materiale. Gli altri requisiti stabiliti dall’articolo 2 chiariscono che tali vincoli affettivi sono di natura non familiare. In altri termini, tali vincoli sono quelli derivanti da un legame sentimentale o da un rapporto di amicizia, parrebbe di capire (anche dalle parole dei ministri che con tanta insistenza hanno voluto porre l’accento sulla possibilità per due anziani che convivono di usufruire per mutua assistenza delle previsioni del ddl in oggetto… sempre che vivano abbastanza). Ed allora: siamo certi che sia ragionevole riconoscere diritti che comportano un onere per lo stato ad una coppia (o meglio un paio, visto che la parola coppia pare un tabù legislativo) di conviventi legati da un rapporto di amicizia, o ai due anziani che piace tanto citare? Si tratta di situazioni equiparabili a quelle di due persone che non possano sposarsi o che in ogni caso scelgano un progetto di vita comune? La risposta ci pare scontata.

 

Per non dare disturbo all’episcopato italiano si è evitato, per l’appunto, di ricorrere a qualsiasi meccanismo di riconoscimento pubblico. E qui iniziano le ambiguità paradossali. Si è fatto ricorso al dpr. 30 maggio 1989, n. 223, che da vent’anni stabiliva una asettica annotazione della convivenza anagrafica. Non soltanto. Per evitare che la dichiarazione congiunta all’ufficio anagrafe (non all’ufficiale di stato civile, si noti) avesse la parvenza di una “celebrazione” (e poi questa non sarebbe la legge di Ruini?) si è preferito consentire una dichiarazione unilaterale, comunicata al convivente tramite lettera raccomandata. L’invio di una lettera raccomandata alla persona cui si è legati da vincoli affettivi e, soprattutto, con cui si convive non pare prova di grande sintonia e affetto.

Sorge dunque una domanda spontanea. Come fare a dimostrare l’esistenza del vincolo affettivo, che, tra l’altro, pare non dovere essere necessariamente di natura sentimentale? Non esiste una risposta a questa domanda. Il principio della certezza del diritto si arena. L’impasse è rilevante per una legge dello stato che riconosce diritti, seppure azzoppati, opponibili ai terzi e oneri per l’autorità pubblica. La soluzione è invece sbrigativa: si fa ricorso alle sanzioni penali. Ma come si può dimostrare l’intento fraudolento nell’ambito di una convivenza così come definita dal ddl, ossia in cui uno dei cui criteri è l’esistenza di vincoli affettivi di natura imprecisata? Una convivenza per lo più comunicata anche soltanto da una delle parti e annotata secondo una procedura standard? Dall’ambiguità pare passarsi all’arbitrio puro, all’assurdo, in cui la soluzione sbrigativa trovata dal genio legislativo è, per l’appunto, la delega al tribunale penale.

Abbiamo ancora dubbi che questo ddl sia peggiore della legge francese sui pacs? Verifichiamone gli aspetti sostanziali.

 

Molto si è detto sul diritto di visita al convivente malato. Una questione di umanità, si è ripetuto. E’ sorprendente perciò leggere all’articolo 4 del ddl che l’ipocrisia del legislatore si spinge a tal punto da non riconoscere espressamente tale diritto, ma a delegare alle strutture ospedaliere e di assistenza pubbliche e private la disciplina di accesso del convivente per fini di visita e di assistenza. E’ forse per timore di recare pubblico scandalo nelle strutture ospedaliere gestite da religiosi?

Il dubbio sorge spontaneo, altrimenti davvero non v’è altra spiegazione ragionevole. Parrebbe un altro fioretto al cardinal Ruini.

Altrettanto sorprendente è leggere all’articolo 5 che decisioni in materia di salute in caso di incapacità e in caso di morte possono essere assunte dal convivente solo mediante atto scritto e autografo, o con processo verbale alla presenza di tre testimoni. Pensavamo che almeno fino a quel punto ci fossimo già giunti. O forse il senso della norma è la certezza dell’eliminazione dell’imbarazzo dell’atto pubblico notarile per evitare il pubblico scandalo. Insomma, neanche le decisioni in materia di salute e in caso di morte sono automaticamente riconosciute dalla legge al convivente.

 

In materia di assegnazione di alloggi di edilizia pubblica, il ddl delega alle regioni, non introducendo nulla di rivoluzionario, poiché già numerose regioni tengono conto della convivenza more uxorio.

Ancor meno rivoluzionario, anzi, involutivo diremmo, è l’articolo 8 in materia di successioni nel contratto di locazione. Il legislatore stabilisce al comma 1 un principio che il giudice costituzionale aveva stabilito vent’anni prima, quando con sentenza 7 aprile 1988, n. 404 la Consulta aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, l. 392/78 laddove non prevedesse la possibilità per il convivente more uxorio del conduttore defunto a succedergli nel contratto di locazione. Ma per prudenza, il nuovo ddl stabilisce un termine di durata di almeno tre anni.

 

Stessa situazione paradossale è delineata dall’articolo 9 riguardo le agevolazioni in materia di lavoro in relazione alla residenza comune: laddove infatti alcuni contratti collettivi di lavoro già stabilivano l’equiparazione delle coppie more uxorio ai coniugi, il ddl prevede un termine di durata triennale che risulterà peggiorativo proprio per quei contratti che non prevedevano alcun termine.

 

Si tocca il fondo con quelli che dovevano essere due punti cardini di questa disciplina. La spinosa questione del riconoscimento di diritti previdenziali e pensionistici viene miseramente rinviata a data e modalità da definirsi (l’unica certezza è che non ci sarà equiparazione tra conviventi e coniugi). Nulla di fatto. In materia di diritti di successione, non solo si prevede un termine di durata di nove anni (pare si sia optato per l’offerta promozionale, un numero ad una cifra anzichè un numero a due) abbastanza ironico ed anacronistico se si considerano le statistiche sulle separazioni e i divorzi (ma forse il legislatore pone particolare fiducia nelle convivenze): il convivente subisce un trattamento di sfavore rispetto al coniuge sia per quanto riguarda l’aliquota fiscale, sia per i termini della successione legittima, allorché si stabilisce un concorso nella successione legittima con fratelli o sorelle, o con parenti entro il terzo grado in linea collaterale. In altri termini, il testamento rimane, nonostante la legge, il sistema più sicuro per l’esecuzione delle volontà del de cuius.

 

Se poi risulta sibillina, e probabilmente di significato quasi nullo, la norma in materia di permessi di soggiorno,
completamente assenti sono i diritti fiscali, di assistenza penitenziaria e sanitaria.

Come la legge francese sul pacs, anche il ddl italiano prevede la cessazione di tutti (o quasi, fatti salvi, parrebbe, gli obblighi alimentari, che tuttavia intervengono a convivenza già terminata e a determinate condizioni) i diritti e le agevolazioni nel caso in cui uno dei conviventi contragga matrimonio. Ad eccezione di questa situazione, la cessazione della convivenza non viene neppur presa in considerazione. In altri termini, parrebbe che la scelta, quand’anche non comunicata all’altra parte, di contrarre matrimonio, porrebbe fine in modo automatico agli effetti della convivenza.

Qualche considerazione finale. Ci spieghino i signori ministri come definire questo ddl, se non ambiguo, ipocrita, insensibile, incoerente, inutile e tecnicamente mal fatto. Se c’erano dubbi sulle pressioni del Vaticano, questo ddl offre una certezza: ci troviamo chiaramente di fronte alla seconda legge clericale ed ideologica dello stato italiano, dopo la legge 40 sulla fecondazione medicalmente assistita. Una legge tanto manipolata da vescovi, cardinali e sudditi al punto dall’essere, per l’appunto, incoerente, ambigua e mal scritta, con il solo proposito di non urtare troppo le gerarchie ecclesiastiche. Una legge quasi offensiva ed umiliante per le coppie more uxorio. Non un testo leggero, ma tanto inopportuno da essere ingombrante.

Se poi si considera che questa lunga battaglia per i diritti civili è stata voluta e portata avanti dal movimento gay, lesbico, bisessuale e transgender, la vittoria del Vaticano appare ancor più lampante. Tra le voci dell’Oltretevere e della destra che rifiutavano qualsiasi ipotesi di “simil-matrimonio” e quella del Parlamento europeo che da 13 anni chiede l’estensione del matrimonio per le coppie formate da persone dello stesso sesso o la previsione di un istituto equivalente, il governo di centro-sinistra ha ascoltato le prime.

Non solo per tali coppie questo ddl non è efficace in termini di riconoscimento di diritti civili, ma è discriminatorio, sia da un punto di vista formale che sostanziale. E si badi che l’omofobia è pericolosa sia quando è palese, sia quando è strisciante, quando assume le forme di benefico trattamento differenziato. In questi casi, in quanto subdola, è ancor più pericolosa. L’Italia rimane ai margini dell’Europa. Ed a questo proposito consiglieremmo ai membri del governo italiano di visitare con più assiduità i colleghi dell’America Latina, in quanto i progressi di Paesi come Argentina, Brasile, Messico, Uruguay e Colombia in materia di riconoscimento dei diritti delle coppie formate da persone dello stesso sesso appaiono invidiabili dalla prospettiva di chi si trova arenato nel XIX secolo.

A chi da oggi inizierà a guardare al bicchiere mezzo pieno, facendo notare come questo sia un punto di partenza, un breccia nel muro, un passo avanti, chiederemmo soltanto di riflettere sulla natura del dibattito politico nei mesi scorsi, a destra come a sinistra, di considerare le reazioni della Chiesa, di confrontare il testo del ddl in discussione e tutte le proposte depositate in Parlamento, dalla proposta iniziale sul Pacs, che già veniva definita la “mediazione della mediazione” oltre la quale c’è la rinuncia, di pensare che la legge dovrà ancora affrontare l’iter parlamentare, dove ad attenderla ci sarà anche il centrodestra che su questi temi mostra, ahi noi, una coerenza e compattezza molto più forte.

Se questo è l’inizio, ci pare l’inizio della fine. Ci viene più facile credere a Babbo Natale che alle prospettive di futuri avanzamenti.

Scusateci, ma… non possumus.