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Pubblicità progresso contro l’omofobia: una riflessione critica

4 Agosto 2008

L’ideatore canadese Pierre Blain, direttore della Fondazione Emergence, della campagna pubblicitaria organizzata dalla Regione Toscana per favorire la lotta contro la discriminazione di cui gli omosessuali sono vittima in Italia, ha dichiarato che anche nel suo Paese le voci più critiche contro quell’immagine, usata a Montreal la scorsa primavera, si sono levate proprio tra le fila delle associazioni LGBT. Quindi – verrebbe da dire – niente di strano se anche nel nostro Paese da giorni stiamo discutendo se sia stato positivo o negativo pubblicare il manifesto che ritrae un ignaro pargolo con un braccialetto che reca la scritta “omosessuale”.

L’opinione di Oliviero Toscani è troppo di parte per essere condivisa. Richiesto di un giudizio sulla campagna pubblicitaria, si è detto totalmente convinto della sua bontà. Lui sostiene che la pubblicità è arte e l’arte deve provocare chi la osserva. È un po’ ingenuo chiedere a Toscani un’opinione in merito. Pure se lo avesse pensato – non essendo stato lui l’autore del manifesto – avrebbe mai detto che dissentiva dalla scelta grafica, lui che da ultimo ha fotografato una ragazza anoressica nuda per combattere la nuova piaga dell’opulento mondo occidentale?

D’altro canto non si può nemmeno convenire con chi, aduso alle frasi ad effetto, taccia di omofobi tutti quelli che hanno storto il naso dinanzi al manifesto. Anche se a me non è piaciuto, non penso proprio di essere un omofobo.

C’è la possibilità, allora, di riflettere pacatamente sulla questione senza farne l’ennesima bandiera ideologica, senza utilizzare una logica di parte, senza fare di una pubblicità progresso uno strumento per contarsi e capire chi sta con chi? Forse sì, a giudicare dalle mail che ho ricevuto in questi giorni da amici (etero e gay) a tal riguardo.

 

Devo confessare che all’inizio quell’immagine non mi dispiaceva, mi ricordava l’altra campagna pubblicitaria de Il Manifesto con il bambino, placidamente addormentato con il pugno chiuso, sovrastante la scritta: “la rivoluzione non russa”. Ho sempre adorato quel calembour e quell’immagine che associo ai miei felici anni romani.

Proprio ricordando l’altra immagine ho fatto un gioco mentale. Ho cercato di capire quale era la differenza tra le due immagini. In un caso (la pubblicità de Il Manifesto) l’immagine del bambino serviva a far sorridere: una volta compreso il gioco di parole tra l’aggettivo “russa” riferito alla rivoluzione e il verbo “russa” alla terza persona riferito logicamente al bambino. L’effetto ultimo era smorzare l’impeto violento che la nostra mente associa alla parola rivoluzione. Come a dire che le cose possono cambiare profondamente anche in un silenzio simile a quello di un innocente che dorme, ma che è destinato a diventare – proprio perché dorme tranquillo – un uomo forte. La rivoluzione come creatrice di un uomo nuovo. E un bambino è un uomo nuovo.

Insomma, una vera trovata di genio.

 

Nel caso della pubblicità anti-discriminatoria della Regione Toscana, invece c’è un bambino con un braccialetto, elemento innaturale (un bambino nasce senza niente e non sceglie lui di indossarlo, sono altri a mettergli il braccialetto), che è come l’etichetta di un prodotto (l’informazione sulla scatola mi dice cosa c’è in quel fagottino: addirittura un omosessuale!). Delle due l’una o c’è qualcuno che lo ha riconosciuto, o c’è qualcuno che ha deciso per lui. In ogni caso c’è qualcuno che d’ora in avanti sa con chi ha a che fare, così che si possa comportare di conseguenza: ossia con rispetto, ci auguriamo tutti. Del resto, ci avvisa la didascalia del manifesto: l’orientamento sessuale non è una scelta.

Nessuno discute sull’efficacia del manifesto, anche perché non ne staremo a parlare. Eppure, si converrà che la provocatorietà di uno slogan o di un’immagine, non può essere il solo metro di giudizio di una campagna pubblicitaria.

Quello che non convince molti è il messaggio che veicola: la necessità di una segnalazione visiva dell’altro come diverso, anche quando quella diversità non è evidente, come nel caso dell’orientamento sessuale. Se non sembrasse irriverente nei confronti di una tragedia tanto grande, la mente correrebbe immediatamente alla stella cucita sui cappotti di quanti non appartenevano alla razza ariana. Ma possibile che per ottenere rispetto i gay sentano il bisogno di etichettarsi? E’ questa la domanda che alla fine mi sono fatto.

 

Qualcuno ha criticato l’immagine perché rinvierebbe ad una certa origine dell’omosessualità, quella genetica e non ad un’altra, quella psico-sociale. Non è questo il punto. Anche se si dovesse scoprire che è un fatto genetico, o che è tutto frutto del condizionamento ambientale, cosa cambierebbe per chi è omosessuale? Che lo sia per scelta o per tara genetica, cosa cambia? Nulla. Nel momento in cui entro in relazione con l’altro, vado rispettato per quello che sono, a prescindere dalla ragione che ha determinato il mio essere.

Allora sarebbe stato più simpatico che quel bambino non avesse alcun braccialetto, che fosse magari leggermente più sorridente (e non vagamente imbronciato come quello nella foto) con una didascalia del tipo: “ma se fosse omosessuale non sarebbe comunque un bel bambino?”.

Non so se è espressione di omofobia il fatto di sentirsi totalmente se stessi in mezzo agli altri senza bisogno di avere etichette addosso, che con l’avanzare dell’età non sono più i braccialetti della nursery, ma i vestiti di un paio di stilisti un tempo fidanzati, oppure l’assidua frequentazione di certi locali rigorosamente dedicati, magari con tessera (tanto per rimarcare ulteriormente un’appartenenza), o infine l’uso di una specie di linguaggio in codice, che ormai i miei amici etero conoscono benissimo, essendo stato costretto spesso a fare da interprete per loro.

So che Mario Mieli si rivolterebbe nella tomba a leggere quello che sto per scrivere, ma nell’era del post-gay non c’è più bisogno di queste etichette, non c’è più bisogno di dirsi diversi a tutti i costi. Una parte della comunità LGBT italiana lo sa perfettamente e non si tratta di una parte minoritaria, anche se a qualcuno fa comodo descriverla come tale.

 

Né mi fa cambiare giudizio, il fatto che in Canada si sia utilizzata la stessa immagine per sostenere una campagna contro la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale. Se qualcuno seriamente pensasse una cosa simile, dimostrerebbe che siamo alle solite: quello che fanno all’estero è tutto ben fatto e noi ci dobbiamo adeguare.

Né mi sfiora lontanamente l’idea che debba pensarla altrimenti, perché altri in altre parti dell’Europa l’hanno giudicata positivamente.

Fare comunicazione è una questione delicata. Non si può ignorare il contesto in cui viene effettuata, anche se viviamo nel villaggio globale. Come si fa a non considerare le sensibilità che caratterizzano un determinato contesto? La recente campagna pubblicitaria dei due stilisti italiani un tempo fidanzati è stata aspramente contestata in Spagna perché ritraeva una donna succube di un gesto violento da parte di un uomo, mentre in Italia non ce ne eravamo nemmeno accorti e comunque nessuno ha avuto niente da ridire neppure dopo la protesta spagnola.

Ma ammesso che qualcuno obietti che farei bene a non storcere tanto il naso perché la stessa campagna di informazione l’hanno fatta anche in Canada, dove i gay possono anche sposarsi (mentre il nostro Ministero dell’interno considera dei fuori legge tutti i gay che si sono sposati – anche se all’estero – come ha ribadito in una circolare di qualche giorno fa), forse dovrebbe ascoltare l’ideatore del manifesto, il quale non si è detto affatto stupito che in Italia ci siano persone che la pensano come me, dal momento che in Canada la reazione dei gay è stata la stessa.

E magari da quelle parti sono ancora più numerosi rispetto ai dissenzienti italiani, visto che non avendo bisogno di etichette, da anni continuano a rivendicare i loro diritti come normali cittadini: portando le istituzioni in Tribunale e non le etichette addosso.

Forse è per questo che siamo al punto in cui siamo e non perché non ci piace il manifesto toscano.