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Laviamo via il pregiudizio

21 Ottobre 2008

L’articolo è originariamente apparso su L’Unità del 21 ottobre 2008.

 

«Se non si può vivere d’amore, si può morirne», dice un verso di John Donne. E penso a Matthew Shepard, un ragazzo gay di ventun anni, legato a un recinto e ucciso di botte in una notte di ottobre del Wyoming. Era il 12 ottobre 1998, dieci anni fa. La memoria corta dell’umanità non ha impedito di fare di questo ragazzo un simbolo della lotta contro l’omofobia. È anche per lui che la parola omofobia ha smesso di essere un vocabolo sconosciuto nelle nostre case, e molti Stati, non ancora l’Italia, si sono sentiti in dovere di adottare una legislazione idonea per combatterla. Memorabile l’orazione del padre di Shepard, nel corso del processo, di fronte agli assassini del figlio.

Disse il padre: «Matt è divenuto un simbolo, alcuni dicono un martire, il ragazzo-della-porta-accanto contro i crimini motivati dall’odio. Va bene. Matt sarebbe contento di sapere che la sua morte è stata di aiuto per gli altri… La speranza in un mondo migliore, senza discriminazioni nei confronti delle diversità, era la sua molla. Lei, signor McKinney, e il suo amico, signor Henderson, avete assassinato mio figlio. Lei ha aperto gli occhi alla gente, ha permesso al mondo intero di comprendere che il modo in cui vive una persona non può giustificare la discriminazione, l’intolleranza, la persecuzione, la violenza. Io non potrò riavere mio figlio, ma posso fare del mio meglio perché questo non accada a un’altra persona o a un’altra famiglia. Mai più. Mio figlio è diventato un simbolo del rispetto dell’individualità e della diversità».Nella vita politica e personale, questo simbolo si accende, e spesso si spegne, in continuazione. Uno sguardo ai fatti, piccoli e grandi, dell’ultimo mese. In Ecuador, un referendum ha approvato, con oltre il 65% dei voti, la nuova Costituzione, che riconosce i diritti delle coppie di fatto, comprese quelle dello stesso sesso. In India, la Corte Suprema sta discutendo la richiesta avanzata da alcune associazioni di abolire il reato di omosessualità, previsto dall’art. 377 del codice penale: il verdetto sarà noto nei prossimi giorni. Tra poco sapremo anche cosa decideranno i cittadini della California, chiamati a votare, il 4 novembre, non solo per il nuovo presidente degli Stati Uniti, ma anche, con apposito referendum, per abrogare la legge attualmente in vigore che consente i matrimoni gay. McCain vuole sfruttare a suo favore il voto anti-gay dei conservatori, mentre Obama ha dichiarato che quella legge deve rimanere in vigore. Intanto, il Connecticut ha esteso i diritti delle coppie eterosessuali anche a quelle omosessuali.

In Italia riprende il dibattito parlamentare sull’omofobia e sulle unioni civili, che tante pene ha causato alla precedente legislatura. In Commissione Giustizia, la deputata Pd Paola Concia ha presentato la proposta di legge recante «Disposizioni in materia di reati commessi per finalità di discriminazione o di odio fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere». Pochi giorni dopo, i ministri Rotondi e Brunetta hanno depositato la proposta di legge DiDoRe (Diritti e Doveri di Reciprocità dei conviventi), ennesimo acronimo che prova a regolamentare le unioni di fatto. Da quello che si può leggere, i DiDoRe rimangono nell’ambito del diritto privato, trascurano questioni fondamentali come la pensione e l’eredità e, richiedendo una convivenza da almeno tre anni, veicolano l’idea che i cittadini a cui si rivolge questa proposta di legge sono comunque meno affidabili di altri, quelli che possono sposarsi.

A chi pensa esistano famiglie di serie A e di serie B, suggerisco la lettura di un libro appena uscito per le Edizioni Mimesis, «Le unioni tra persone dello stesso sesso», a cura di Francesco Bilotta, ricercatore di diritto privato a Udine, ma cresciuto alla cattedra di Stefano Rodotà. Attraverso profili di diritto civile, comunitario e comparato, per la prima volta in Italia si affronta il nodo giuridico delle famiglie formate da persone dello stesso sesso, studiando la percorribilità di una strada giudiziaria che consenta di tutelare i diritti delle coppie omosessuali. Per Anthony Giddens «una democrazia delle emozioni non fa distinzione di principio fra relazioni eterosessuali e omosessuali». Non serve dire: «ho tanti amici gay». Serve vivere in uno Stato capace di offrire a tutti i suoi cittadini le stesse opportunità. Inutile chiudere gli occhi: la famiglia è sempre una costruzione sociale. Il riconoscimento delle famiglie omosessuali, che di fatto già esistono, non toglie nulla a nessuno. È un’acquisizione di diritti per alcuni, non una riduzione di diritti per altri. Un percorso che, illuminando la vita di una minoranza, porta luce al futuro di un’intera società. Ma succede di finire nelle tenebre. È il caso di Chiara Atzori, infettivologa presso l’Ospedale Sacco di Milano e sostenitrice della terapia riparativa, che a Radio Maria, nella trasmissione «Il medico in diretta», rispondendo a un ascoltatore preoccupato che la “legalizzazione” dell’omosessualità possa diffondere l’Aids, non solo non sente il bisogno di spiegare che non siamo in Iran e che da noi l’omosessualità non è illegale, ma rincara la dose aggiungendo che «nei Paesi dove è avvenuta la normalizzazione dell’omosessualità, e quindi in qualche modo la depatologizzazione intesa come, così, equiparazione di un modo di essere come un altro, i risultati sanitari sono stati devastanti». Insomma la vecchia teoria del gruppo di untori (il trascritto verbatim della trasmissione è disponibile su internet). E questo proprio nei giorni in cui il Papa, in occasione dei 40 anni della Humanae Vitae di Paolo VI, lancia un nuovo attacco ai metodi contraccettivi. Ma dove sta di casa la scienza? La domanda circolava anche in un convegno organizzato dall’Associazione Italiana degli Psichiatri e Psicologi Cattolici, a Roma, lo scorso 11 ottobre. Nel tentativo, dicono gli organizzatori, di favorire un dialogo tra chi si riconosce nei valori della Chiesa (e quindi, deduco, nella convinzione ratzingeriana per cui «la persona che si comporta in modo omosessuale agisce immoralmente») ma anche, in quanto psicologo, appartiene alla comunità scientifica e quindi dovrebbe considerare l’omosessualità come una variante della sessualità umana. Come si può capire, si tratta soprattutto di un dialogo interno allo psicologo cattolico, che va comunque sostenuto con l’ascolto e la condivisione di materiale scientifico. Il convegno ha offerto l’occasione di ascoltare la bella testimonianza di Natascia, insegnante e laureanda in psicologia: «quello che posso dire riguardo alla mia esperienza, in parole semplici, è che nel momento in cui mi sono riconciliata con la mia affettività e il mio orientamento omosessuale lì ho trovato ad attendermi Gesù. Ho sentito un forte senso di liberazione e qualcosa si è sciolto dentro di me: finalmente potevo vivere pienamente la mia identità. È stato un cammino lungo che mi ha chiesto umiltà e coraggio, ma da sono ripartita per costruire una vita vera, sana ed equilibrata».

Il problema è l’omofobia. Come assetto emotivo e fenomeno sociale. Un fattore così potente che spesso finisce per essere interiorizzato dalle stesse persone omosessuali, tradotto in vergogna e indegnità. Al punto da spingere alcuni a chiedere di essere aiutati a cambiare orientamento sessuale. Impresa impossibile, diceva Freud. Sciaguratamente, a questa domanda, alcuni psicologi, ai margini della comunità scientifica, rispondono proponendo nefaste “terapie riparative”, di “riconversione” all’eterosessualità. Interventi pericolosi, che rinforzano il pregiudizio e peggiorano lo stato psicologico di persone già sofferenti. A Napoli, il 9 ottobre, l’associazione «I-Ken», con il contributo di Provincia, Comune e Università, ha organizzato la prima giornata nazionale di studio: «Omofobia. Interventi integrati in ambito educativo». Quelli di «I-Ken» lavorano sodo sul territorio
della città e si sono inventati un simbolo bellissimo: una saponetta rosa che lava via il pregiudizio. La democrazia, politica ed emotiva, è sempre imperfetta, ma buone leggi possono fare molto per migliorarla. Auguriamoci che la saponetta che lava il pregiudizio finisca nei bagni del nostro Parlamento.

 

* Psichiatra e psicoanalista, docente all’Università “Sapienza di Roma”